Iscriviti ai Feed Aggiungimi su Facebook Seguimi su Twitter Aggiungimi su Google+ Seguici tramite mail

Iscriviti alla nostra newsletter!

sabato 28 marzo 2020

Paura e angoscia in Kierkegaard. La filosofia illumina il presente.

Post di Rossana Rolando. 

“Chi ha imparato a sentire l’angoscia nel  modo giusto,
ha imparato la cosa più alta”¹.

Søren Kierkegaard, 
The Royal Library, Denmark
Galimberti, Recalcati e altri importanti analisti hanno interpretato la crisi coronavirus che stiamo vivendo utilizzando la distinzione tra paura e angoscia. La paura - dicono - non è adatta ad esprimere lo stato d’animo che noi proviamo oggi, perché essa è sempre generata da un pericolo ben preciso: si ha paura di un incendio, di un animale feroce, di un incidente. Più evocativa è l’angoscia che si genera di fronte ad un nemico invisibile, sconosciuto, non localizzabile: e il contagio da coronavirus ha una tentacolarità che sfugge ad ogni individuazione, ad ogni preciso “dove”, “quando”, “che cosa” può essere origine della malefica infezione.
La distinzione, posta in questi termini, è ripresa dal filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) che ha connotato la differenza tra paura, di fronte al determinato, e angoscia davanti al nulla di determinato:
“Il concetto dell’angoscia è completamente diverso da quello della paura e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità”².

venerdì 20 marzo 2020

70 anni del genetliaco di Emmanuel Mounier (22 marzo 1950).

Post di Gian Maria Zavattaro
Le immagini sono riprese dalla pagina facebook dedicata a Mounier (qui).

Emmanuel Mounie

“Bisogna salvarsi insieme; bisogna arrivare insieme dal buon Dio, bisogna presentarsi insieme; non bisogna arrivare a trovare  il buon Dio  gli uni senza gli altri. Dovremo tornare tutti insieme nella casa del padre. Bisogna anche pensare un poco agli altri; bisogna lavorare un poco gli uni per gli altri. Che si direbbe se arrivassimo, se tornassimo gli uni senza gli altri?” (Ch . Péguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, AVE, Roma, 1966, pag. 35).

Nel pieno della virulenza del coronavirus in Italia e nel mondo ricorre  il 70° della morte - notturna improvvisa  per infarto - di E. Mounier non ancora 45enne. Indubbia casualità che tuttavia mi consente qualche riflessione correlata con il nostro smarrimento in questo inquietante ed incerto interregno temporale che ci sollecita a “riconciliarci profondamente con la nostra umanità”: “non pensavamo di essere anche noi vulnerabili e così tremendamente fragili”, convinti del “privilegio di una sostanziale e durevole immunità dalla paura e dal senso così umano di insicurezza […] tanto da sentirci in dovere di negare agli altri - i popoli più poveri e svantaggiati - il diritto a sedere al banchetto della nostra felicità” (1). Ebbene scriveva Mounier a J. Guitton nel 1928 “Io voglio accogliere e donare: è tutto”; due giorni prima di morire ancora scriveva a l'abbé Depierre:"Io vorrei con mia moglie dare almeno un po', e prepararmi al giorno in cui gli avvenimenti forse ci spingeranno a donare tutto". A questa istanza  è rimasto fedele per tutta la vita.

lunedì 16 marzo 2020

Parole, al tempo del coronavirus.

Post di Rosario Grillo
Immagini delle opere del pittore francese Robert Delaunay (1885-1941).

Robert Delaunay, 
Arcobaleno 
(simbolo di speranza nei disegni dei bambini, 
nel tempo del Coronavirus)
La morsa del coronavirus si stringe ancora di più obbligando il nostro governo a dichiarare tutto il territorio italiano come zona rossa, mentre il responsabile di OMS dichiarava lo stato di pandemia.
Un autorevole professore di scienze, David Quammen, ripassa, attraverso un’intervista su Wired, le ragioni dell’allarme lanciato nel suo libro Spillover del 2012 (1). Ragioni che si restringono nel principio di Darwin dell’unità stretta degli esseri viventi; esse costituiscono un momento fondamentale della responsabilità ecologica, che tutti dobbiamo assumere.
La condizione di allarme e di paura ha scatenato un’indagine sui rimedi, che abbisogna di un arco temporale di articolazione, onde assumere la veste della oggettività.
Un tumulto di passioni soggettive accompagna il momento, tanto più che, inevitabilmente, nello spazio in cui siamo ristretti e dentro... una certa inattività forzata, il pensiero vaga di qua e di là, turbato e, solo a tratti, in “zona critica” attiva. Per questo, penso di affrontarla più che con una proposta organica, con un excursus attraverso le parole correnti al tempo del coronavirus.
Debbo, per correttezza, premettere un augurio che mi faccio e che rivolgo a tutti: prendere lo sprone dell’evento pauroso per riorganizzare ogni cosa da cima a fondo: Istituzioni, politica, economia, relazioni, atteggiamento morale, bisogni e consumi.

giovedì 12 marzo 2020

A cosa serve l'arte, nel tempo ferito?

Post di Rossana Rolando.

Thomas Jones, Un muro a Napoli
olio su carta, 1782, Londra, The National Gallery
Ognuno di noi lo ha sperimentato, in un modo o in un altro: per cambiare vita abbiamo spesso bisogno di un trauma. Ebbene, per cambiare vita tutti insieme sarebbe saggio farci bastare questo trauma: il prossimo potrebbe non lasciarcene il tempo (Tomaso Montanari, qui).
Queste parole, scritte a proposito della “ferita” contingente del Coronavirus, possono ben introdurre all’interno di una riflessione sul significato dell’arte - intesa come viatico di un possibile cambiamento civile e morale - che lo stesso Tomaso Montanari conduce ne L’ora d’arte, un libro uscito nel 2019¹. In esso sono raccolti gli interventi relativi a 100 opere, originariamente scritti per diverse testate giornalistiche.

domenica 8 marzo 2020

La cultura nei tempi della solitudine.

Post di Gian Maria Zavattaro
Immagini delle illustrazioni di Guido Scarabottolo (con gentile autorizzazione, pagina instagram).

Guido Scarabottolo
Per molti, in questi tempi di forzato isolamento - civilmente ed eticamente necessario - dovuto alle misure di contenimento del contagio da Coronavirus, leggere un libro, ascoltare musica, seguire una videoconferenza... possono costituire modalità attive per trasformare la solitudine in un'opportunità. 

La riflessione proposta in questo post prende avvio dalla odierna situazione e si sviluppa a partire da una serie di domande:  in quale senso le azioni culturali sopraddette (leggere un libro, ascoltare musica, seguire una conferenza... e altro) possono diventare un'opportunità e provocare un cambiamento? In altre parole, in che modo e quando la cultura può renderci diversi e migliori? La “cultura” è in sé e per sé fattore di crescita delle persone e con loro della società in cui vivono? Tutte le prestazioni culturali? Quale cultura? La mia, la tua, la loro? Che cosa vuol dire cultura  in questo nostro tempo di privazione? E’ riservata a pochi eletti o  potenzialmente appannaggio offerto a  tutti?

✳️ Cultura: parola polisemica, ambigua, ambivalente, sempre oscillante tra umanizzazione  e disumanizzazione. Nella storia umana, ieri come oggi, uomini e donne  hanno prodotto in tutto il mondo sublimi innumerevoli opere “culturali” (artistiche, filosofiche letterarie, musicali, di ingegno, invenzione scoperta…), hanno ampliato a dismisura le conoscenze di  sé degli altri dell’universo, progressivamente ci hanno reso più consapevoli dei valori universali che uniscono tutta l’umanità oltre le frontiere del tempo e dello  spazio. 
Guido Scarabottolo
Ma nella storia dell’umanità, ieri  e tanto più oggi, uomini e donne piegano (aggiungerei: tradiscono) la “cultura” aderendo partecipando programmando orchestrando pianificando la banalità del male: immani stermini di massa, cinici respingimenti di migranti, violenze d’ogni genere, guerre a non finire, business maledetti come la tratta di donne e bambini… e, più silenziosamente e diffusamente, corruzione, clientelismi, favoritismi, non di poveri disgraziati ignoranti  ma di uomini tronfi  superdecorati di titoli e lustrini, feudi baronali annidati  ai vertici delle gerarchie di ogni colore e tipologia. Su tutto ciò non mi soffermo se non per ribadire l’ambiguità della cultura quando si fa disumanizzante, quando si pretende di asservirla al potere, quando si fa elitaria casta,  consorteria che non ha nulla a che fare con la comunità, se non per asservirla e plagiarla.

mercoledì 4 marzo 2020

Expat. Fenomenologia delle migrazioni.

Post di Rosario Grillo
Fotografie di Jerry Segraves.

Jerry Segraves,  
Blue-reflect
Scrive Bachelard: «soltanto la fenomenologia – cioè̀ lo scaturire dell’imma-gine in una coscienza individuale – può aiutarci a restituire la soggettività delle immagini ed a misurare l’ampiezza, la forza, il senso della transoggettività delle immagini».

Proverò a servirmi della fenomenologia, così come la intese Husserl: scienza eidetica, considerato che egli aveva reagito alla riduzione positivista riportandosi al flusso percettivo della coscienza e riconfigurando l’esperienza (Erlebnis) in armonia con la vita.
L’argomento che vado a trattare ben si conviene al suo metodo, che rivela e non occulta l’apparire nella soglia fluida e vivida della percezione: laddove non si consente nessuna operazione di teoresi astratta e si registra l’immediatezza e il  “continuum”.
Oggi, tale approccio, quando si parla del migrare come costante dell’esistere storico degli esseri umani, potrebbe aiutare a penetrare la “crosta dura” di una diffusa opinione sugli “opportunismi” della scelta migratoria.

giovedì 27 febbraio 2020

L'epidemia e la peste dell'insonnia di Gabriel García Márquez.

Post di Rossana Rolando

Illustrazione tratta da "The temple of flora"
di Robert John Thornton (1768-1837),
Mimosa grandflora
(Immagine di copertina di Cent'anni di solitudine, ed. citata).
La temuta epidemia di Coronavirus, pur con le opportune necessarie distinzioni, ha richiamato, alla mente di molti, l’ampia letteratura sulla peste - da Tucidide a Sofocle, da Lucrezio a Boccaccio, fino a Manzoni -, con pagine che sembrano tratte dal nostro presente e che ben evidenziano l’atteggiamento costante degli uomini di fronte al pericolo incombente, supposto o reale che sia. Non meno illuminante è il rimando ai risvolti simbolici di alcune altre opere, come avviene ne La peste di Albert Camus, in cui il morbo diventa metafora della violenza totalitaria, o come accade nel racconto di Gabriel García Márquez, in cui la peste, allegoricamente intesa come malattia dell’insonnia, ha l’effetto di una progressiva perdita della memoria.
Mi soffermo, in particolare, su quest’ultima narrazione, inserita in Cent’anni di solitudine.
“… la cosa più temibile della malattia dell’insonnia non era l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato”¹. 

domenica 23 febbraio 2020

La terra promessa del sionismo.

Post di Rosario Grillo
Immagini delle opere di Arturo Nathan, pittore italiano di origine ebraica, morto in campo di  concentramento tedesco nel 1944.

Arturo Nathan, 
L'esiliato, 1928
È mia opinione che dentro la questione israelo-palestinese si nasconda la chiave della crisi di sistema dei rapporti internazionali a partire dalla seconda metà del ‘900.
È durata “lo spazio di un mattino l’apertura della prima presidenza di Obama al mondo arabo, così con Trump, l’esecutore della “America first”, si è raggiunto il punto più basso della possibilità di una risoluzione della convivenza tra i due popoli in quella “terra promessa”.
Fondate ragioni, che ispirano le convinzioni dello storico Sternhell, del quale includo la recente intervista (1), frutto del periodico Reset, quelle stesse che rafforzano la mia opinione, si oppongono, però, in maniera radicale, al piano di pace che ha ultimamente proposto il presidente americano.
Per inquadrare correttamente il problema, occorre dare una cornice storica al popolo degli ebrei. In proposito, bisogna delineare le due componenti: quella spirituale, legata al “popolo eletto” della tradizione biblica, e quella meramente laica di un popolo che, nelle traversie della diaspora, tesse e sviluppa tradizioni ed attitudini, intrecciandole inevitabilmente con i popoli e con le vicende culturali dei territori frequentati.

sabato 15 febbraio 2020

Non esiste gioco senza perdita, Massimo Recalcati.

Post di Rossana Rolando.

Massimo Recalcati,  
Le nuove melanconie
Leggo il capitolo di Recalcati Non esiste gioco senza perdita, contenuto nel suo ultimo libro Le nuove melanconie¹ sotto l’influsso di una doppia suggestione: da una parte, come insegnante, l’esperienza di alunni che vorrebbero ritirarsi dalla scuola, non per fare qualcos’altro, ma per rimanere a casa, spaventati dalla fatica della vita scolastica e dal complicato intreccio delle relazioni; dall’altra parte, come semplice osservatrice, il fenomeno nato in Giappone e diffusosi altrove - anche in Italia - dei cosiddetti hikikomori², giovani che si chiudono in una stanza e si autoescludono dal mondo, rifugiandosi nella dimensione virtuale.
Naturalmente nessuno è immune dalla tentazione di fuggire l’esistenza, soprattutto quando essa si presenta - per le più svariate ragioni, soggettive ed oggettive - come un peso difficile da portare. Ma quello che può rimanere un retropensiero nella vita adulta, finisce invece per apparire come l’unica strada percorribile in alcune situazioni di fragilità adolescenziale.

Recalcati inizia la sua riflessione con un doppio racconto che mette bene in luce il desiderio di fuga.