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Visualizzazione post con etichetta Rembrandt. Mostra tutti i post
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martedì 27 maggio 2025

Marrani

Post di Rosario Grillo
 
Rembrandt, Ebrei nella Sinagoga, 1648
“Marrano diventa la matrice dell’ebreo moderno nelle sue molteplici figure. La questione non è piú «che cosa devo fare?», l’interrogativo che nei secoli ha accompagnato l’ebreo, richiamato quotidianamente all’eteronomia dei precetti. Piuttosto, osservandosi nello sguardo scrutatore dell’altro, il marrano si chiede «chi sono io?» La coscienza lacerata dell’ebreo moderno, quel suo angoscioso oscillare tra inserimento e marginalità, deriva dalla scissione marrana.” (v. Marrani: L'altro dell'altro (Vele), di Donatella Di Cesare. Link)

Marrani. Il gruppo di ebrei, così classificato, viene comunemente ricondotto ai traditori dell’identità ebraica. Eppure c’è un modo (una ragione, una via) per cui questo senso comune non regge. Ce lo indica Donatella Di Cesare in un agile saggio con appropriato titolo: Marrani.
Punto di incidenza: la compresenza di un dentro e di un fuori.
Dentro: la segretezza dell’appartenenza alla radice ebraica; fuori: la manifestazione della libertà (di pensiero, di fede)… In definitiva la via della laicità.
Cominciando dall’origine, i Marrani rientrano in quella categoria di ebrei che, per reazione all’espulsione dai paesi occidentali (Spagna, Portogallo, Gran Bretagna…) accettano la conversione forzata (conversos) oppure usano la dissimulazione. Nella seconda modalità assumono quella veste sociale nella quale maggiormente sono codificati (in gran parte ingiustamente).
“Vilmarrano!” uscì di bocca a Francesco Ferrucci (assedio di Firenze) a redarguire il capitano di ventura che lo stava trafiggendo: era un segno della nomea pubblica di disprezzo dei marrani.

venerdì 4 dicembre 2020

L'Avvento e l'Attesa nella tempesta del covid.

Post di Gian Maria Zavattaro.

Eugène Delacroix, La tempesta sedata, 1841

Senza pretese di alcun genere - se non quella di vivere con coerenza la mia inquieta fede di laico credente in Dio Uno e Trino - sto tentando di chiarire con mia moglie come vivere l’Avvento da cittadini cristiani in questo tempo maledetto e benedetto del covid, che ha messo a fuoco la divisione della umanità tra tensioni fraterne e solidali, (l’I Care di tanti operatori sanitari, volontari ed anonimi cittadini nei loro invisibili gesti quotidiani di “attenzione” agli sventurati) e la cruda noncuranza degli indifferenti sino al cinismo inflessibile di una marea di profittatori speculatori truffatori.

L’Avvento è per il cristiano il preminente tempo dell’“attesa”(1), tempo della speranza contro la disperazione e della gioia contro la tristezza, nella duplice tensione verso il Natale (l’evento di Betlemme che ha cambiato la storia del mondo e ravviva la speranza che Dio non ci lascia soli) e verso la Parusia (la meta della storia, la seconda venuta del Signore nostro Gesù Cristo, compimento e manifestazione suprema della “presenza” che ha avuto inizio con la sua prima venuta e che continua nel mistero dell’Eucaristia, della Chiesa, della Carità e dei Poveri) (2).

martedì 1 luglio 2014

L'accusa di buonismo: ingiuria o comodo pretesto?


Questo post è accompagnato, dal punto di vista iconografico, da alcune note parabole evangeliche. Naturalmente si tratta di un’illustrazione che va al di là del riconoscimento confessionale, volendo attingere a quei significati universali di cui le parabole sono vettrici, indipendentemente dalla fede di ciascuno.


Le parole possono generare fraintendimenti... 
(Domenico Fetti, la parabola 
del seminatore di zizzania)
Di questi tempi è semplice e facile tacitare qualcuno: basta accusarlo di buonismo.  “Sei un buonista!” e con ciò il discorso  si chiude e si  ha ragione, anche quando non la si ha. Si sa che nella vita bisogna essere seri e per essere seri bisogna soprattutto non essere  buonisti (nè tanto meno moralisti). 

.... semi da cui è bene liberarsi ... 
(Duccio di Buoninsegna, 
la parabola della guarigione del cieco)

Ebbene il buonismo non mi entusiasma ma neppure mi dispiace.  Basta ovviamente intenderci sulle parole.

Buonismo è un neologismo relativamente recente (dagli anni 90) e, nei primi tempi almeno, i dizionari non gli assegnavano una valenza negativa: “atteggiamento bonario e tollerante che ripudia i toni aspri del linguaggio politico” (Zingarelli); “ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari, o nei riguardi di un avversario, specialmente  da parte di un uomo politico; è termine di recente introduzione ma di larga diffusione nel linguaggio giornalistico” (Treccani); “atteggiamento di benevolenza eccessiva e moralistica nei rapporti sociali e di continua ricerca di  mediazione tra posizioni divergenti” (De Mauro).
"Buonismo" può essere 
un atteggiamento di facciata ... 
(la parabola del fariseo e del pubblicano)




Nulla dunque di particolarmente nefasto. Poi invece – un cenno è già in De Mauro - ha assunto progressivamente un significato sempre più negativo, fino a diventare sinonimo di opportunismo accomodante, esagerata e strumentale manifestazione  di buoni sentimenti sovente sconfessata da una condotta incoerente, esternazione vuota e superficiale da esibire in  ogni circostanza, espressione di mancanza di carattere … E così è diventato un ideologico luogo comune, parola “brutta”, “cattiva”, praticamente un’ingiuria ed un’offesa, certo non un complimento.

... può essere, invece, 
l'anticamera della bontà... 
(Giacomo Conti, 
la parabola del buon samaritano)
Che cosa nasconde l’accusa  di buonismo?
Naturalmente c’è sempre un  fondo di verità. Buonismo non è sinonimo di bontà, al più potrebbe esserne l’anticamera. La bontà ha radici profonde, è espressione di una vocazione interiore, di un orientamento maturato attraverso scelte costanti e l’esercizio fedele, frutto di una decisione radicale capace di segnare  definitivamente  e dare senso alla  propria  esistenza proiettata sugli altri. Ne è emblematico paradigma la parabola evangelica del buon samaritano.
Il buonismo invece può essere un atteggiamento sano ed autentico, ma superficiale, istintivo, transitorio, legato più alle circostanze che non alle convinzioni  fondanti della persona: in ogni caso qualcosa di monco, se non prelude alla grandezza della bontà.

... la bontà ha radici profonde ... 
(Pelegrí Clavé i Roquer, 
la parabola del buon samaritano. 
Sullo sfondo il sacerdote che non si ferma a dare soccorso)

Ma il buonismo - quello dei primi dizionari e non certo quello facilone dei giornalisti e dei politicanti – nell’accezione originaria, pur nella sua debolezza e fragile ambiguità, non è né da ridicolizzare né da rigettare a priori quando rivela un possibile cammino verso l’orizzonte della solidarietà, un’apertura magnanima alla comprensione, un volto  paziente e tollerante  che conosce le prove della vita, che  vede con empatia anche i lati oscuri dell’altro e che non è disposto né a giudicare né a condannare, ma a sperare nel positivo nascosto in ognuno di noi.


... la bontà si esprime nella solidarietà... 
(Maximilien Luce, 
la parabola del buon samaritano)
Prendiamo pure le distanze dai buonismi di comodo, di facciata, strumentali, interessati. Chiamiamoli allora con il loro vero nome: ipocrisia, opportunismo, calcolo adulatorio … Credo invece si possa (o si debba?) accogliere con indulgente speranza il buonismo in noi e negli altri: se sono rose fioriranno.
Ma forse l’aspetto più interessante  è  che troppo spesso l’accusa di buonismo è un modo per nascondere qualcosa di se stessi:  una sorta di formazione reattiva, difesa aggressiva, quasi un’excusatio non petita, della nostra aridità spirituale che non sopporta l’altrui tolleranza, subito bollata come ipocrita debolezza; un modo eloquente per nascondere la neghittosità e povertà, proiettandola  su altri. Penso ad  esempio a quanti con faciloneria o stupida disumanità accusano oggi  di buonismo (con l’aggiunta di qualche aggettivo qualificativo come irresponsabile, pericoloso…) la disponibilità ad accogliere in ogni caso gli immigrati che fuggono a migliaia dall’orrore e dalla miseria.
L'accusa di buonismo... 
(E.J.Poynter, 
la parabola del figliol prodigo)
... nella parabola del figliol prodigo ... 
(Guercino) 
... può essere rappresentata dal figlio maggiore... 
(Rembrandt, la parabola del figliol prodigo, 
il figlio maggiore sulla destra)
Ecco: dimmi  chi sei e che cosa fai e poi capiremo se  non fai altro che nascondere la tua mediocrità e la tua indifferenza dietro l'accusa di ”buonismo”, rassicurante e comodo pretesto che, a ben vedere, finisce per ritorcersi contro chi lo pronuncia.

Il vero volto della bontà... 
(Maestri olandesi, 
la parabola del buon samaritano)

mercoledì 29 gennaio 2014

Elogio della lentezza.


                                         Festina lente
(Affrettati lentamente)

Veloce,veloce ... 
Umberto Boccioni, Visioni simultanee.
Lento, lento ....
Muelich Hans, Alberto duca di Baviera 
e la sua sposa.
Ogni giorno dobbiamo confrontarci con una Kultura dominante, agli antipodi rispetto alla cultura (quella vera, quella che si insegna o si dovrebbe insegnare a scuola, con l’umile “c” minuscola, non quella con la K, contrabbandata dai burattinai) che richiede lentezza, solitudine, fatica, silenzio, a volte anche noia, e soprattutto il gusto della  gratuità.

Veloce,veloce ...  
Umberto Boccioni, La carica dei lancieri. 
Lento, lento .... 
C.D. Friedrich, Un uomo e una donna 
contemplano la luna.
E invece tutti si vive di corsa, immersi nella “cultura dell’adesso e della fretta”, perché progredire significa accelerare. Velocità, tutta la possibile velocità, null’altro che velocità: il nuovo giuramento al quale tutti, volenti o nolenti, siamo vincolati nelle relazioni sociali, politiche, economiche, professionali, nei trasporti, nelle comunicazioni, in internet. Il “non ho tempo” tormenta ognuno di noi: passiamo buona parte del tempo a dirlo agli altri. Solo e sempre trionfo del “qui, subito ed ora”, del fantomatico fasullo “tempo reale”.


Veloce,veloce ...  
Umberto Boccioni, La città che sale.
Lento, lento .... 
Vittore Carpaccio, Madonna leggente.
Le nostre insensate “vite di corsa”, caratterizzate da una febbrile frenesia che sino a qualche anno fa sembrava appartenere solo ai giovanissimi, sono ormai la condizione umana generalizzata della società “liquida”, secondo la suggestiva metafora di Bauman. Ognuno di noi, nella sua quotidianità di perpetuo e trafelato presente, è trascinato da una sorta di coazione consumistica che tutto divora: prodotti di ogni genere, pasti, divertimenti, gioie e dolori, incontri, avvenimenti, libri, tragedie collettive come spettacoli da digerire e la nostra stessa vita,  che però se ne frega del tempo reale e fugge irreparabilmente senza che ce ne accorgiamo. Sospinti verso un ruolo ineluttabile di consumatori, condannati “a vivere in una incertezza permanente” con fatica viviamo rapporti significativi, in una spirale di   precarietà emozionale, instabilità relazionale, vacuità valoriale. Questa “liquidità” è la caratteristica emblematica della post – modernità e insieme la sua condanna.

Veloce,veloce ...  
Umberto Boccioni, Rissa in galleria.
Lento, lento .... 
Francesco Hayez, Bacio.
Si può andare controcorrente? Sì, per quanto il gioco sia impervio, pericoloso ed estremamente impegnativo, si può tentare, in nome della nostra pur ridotta libertà, di  non rassegnarsi.  Avete mai vissuto, anche solo di passaggio, l’aria che si respira, credenti o non credenti, in una fraternità monastica non solo cattolica (penso però in particolare alle Comunità di Bose a Magnano, Ostuni, Assisi, Cellole…), vivente denuncia dell’insensatezza e della frivolezza della vita di corsa? Ogni tanto sarebbe bene mandare a quel paese scadenze, orari, perdere il treno in senso letterale e metaforico, ogni tanto fare silenzio dentro ed intorno a noi, ascoltarci, ascoltare, pensare a meditare, e poi camminare a piedi o in bici per le vie della città o per i viottoli di campagna o lungo il Centa… Un po’ di sano deserto insomma, pronti poi a tornare, padroni di noi stessi e non servi, nell’universale liquidità.


Veloce,veloce ...  
Umberto Boccioni, La strada entra nella casa.
Lento, lento .... 
Evaristo Baschenis, Strumenti musicali.
E’ l’esercizio della pazienza e del pensiero  conviviale: si riconosce la nostra ricchezza e la nostra povertà, si coltivano speranze che ci riportano  a noi stessi e  ci mettono  in guardia  da questa Kultura rintronata,  paga di tutti i  bisogni soddisfatti e consumati, che non sa affrontare il vero compito dell'uomo, appunto pensare e rendersi responsabile verso l'altro.
L'arte del pensare non è di tutti, non è da tutti: è difficile oggi (come ieri, come sempre), perché il pensare è lento, irto di ostacoli, è sforzo personale, sforzo sistematico che richiede tempo: quello di porsi domande sull’essenziale.

Lento, lento .... 
Rembrandt, Studioso in meditazione.

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