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domenica 14 giugno 2015

Identità intima e identità sociale. Io e la mia faccia pubblica.


Io e la mia faccia... 
(James Ensor, Autoritratto 
con maschere, particolare)
Io ho bisogno di sentirmi esistere agli occhi di qualcuno, di avere un posto ed un significato in relazione alle posizioni degli altri. Io preferisco di gran lunga essere contestato piuttosto che essere ignorato e non considerato. Io ho bisogno di vedere  accordata e  riconosciuta la mia autostima in modo tale che mi capita di presentare gli aspetti migliori capaci di suscitare approvazione e mascherare, spesso inconsapevolmente soprattutto negli scambi formali, le mie debolezze. “Io” vuol dire “ognuno di noi”, perché nessuno  ama  “fare una pessima figura” né “perdere la faccia”.

...la mia “faccia sociale” 
(J. Ensor, Autoritratto 
con maschere, particolare)
Secondo E. Goffman (Le rites d’interaction, 1974), ognuno di noi  ha la sua bella “faccia sociale” da  salvaguardare: “è l’immagine di sé che ogni persona rivendica nelle relazioni sociali, ricercando una conferma dell’immagine che lui stesso desidera vedere riconosciuta e ratificata dall’altro”.
A me sembra che questo valga sia nel mondo reale  sia in quello virtuale di google o facebook o twitter. Sin dal primo contatto  ci si preoccupa di promuovere  la propria immagine  e richiedere il riconoscimento dell’altro. Un bisogno tanto più cogente  quanto più si è insicuri.

Il bisogno di vedersi 
riconosciuti dagli altri
(J. Ensor, Vecchio uomo con maschere)
Giusto? Sbagliato?  Entrambi, dipende. L’identità che vorremmo fosse riconosciuta (“l’identità sociale”)  non può essere ridotta ad una finzione e ad una maschera: il ruolo sociale non è solo un modo stereotipato di presentarsi agli altri, ma anche “la faccia interattiva del soggetto“, l’espressione socializzata della sua personalità. La parola  scambiata  nell’interazione sociale offre alla “identità intima” l’opportunità di confrontarsi e anche scontrarsi con “l’identità sociale”  di sé. Il confronto  o lo scontro con le immagini degli altri consentono una rivalutazione o una realistica razionalizzazione della propria percezione di sé, un sentimento di identità più stabile, premessa per una migliore comunicazione con gli altri. 

“L'identità intima” 
e “l’identità sociale” di sé 
(J. Ensor, Autoritratto con maschere)
L’identità del soggetto è frutto dello scambio tra  la percezione di sé e lo sguardo degli altri. Quando io ed un’altra persona parliamo, non solo trasmettiamo emozioni sentimenti pensieri, ma reciprocamente tendiamo ad adeguarci allo sguardo dell’altro, a farci riconoscere ed accettare. “Il possesso della parola è relazione di potere“ e contribuisce a influenzare, trasformare positivamente o negativamente l’interlocutore.

Io e lo sguardo dell'altro 
(J. Ensor, I giudici)
Quando parlo  in pubblico, per esempio, so benissimo  di espormi e di assumere il rischio di essere giudicato e bocciato oppure di essere apprezzato e riconosciuto. Nel primo caso il pubblico diventa etereo, quasi invisibile, non trovo su chi fermare lo sguardo per non cogliere forme di rifiuto che mi spegnerebbero; nel secondo caso vivo un’interazione rasserenante che non solo mi gratifica ma mi spinge a dare il meglio di me.

Il condizionamento del pubblico 
(J. Ensor, Musica russa)
Immagino che ognuno di noi, quando parla in pubblico, a suo modo controlli l’immagine positiva della propria identità:  ogni parola è in qualche modo la risultante di una costante negoziazione più o  meno consapevole tra ciò che si vuole comunicare e ciò che in quel contesto conviene dire ed appare accettabile a chi ascolta od  interloquisce. E allora ecco le pause, le esitazioni, le scelte accurate delle parole, le rettifiche, le integrazioni,  i rituali fatti di battute, di gesti, di suadenti sceneggiate...: autoaggiustamenti correttivi che si mettono in atto nell’anticipare o cogliere immediatamente le posizioni dell’altro, le sue reazioni verbali e soprattutto non verbali che esprime e lascia intendere.

Io e la mia immagine... 
(J. Ensor, Le strane maschere)
Dunque l’immagine che io ho di me non è indipendente dall’immagine che gli altri hanno di me: il loro sguardo, il loro comportamento verbale e non verbale sono  una sorta di specchio (anche deformante)  che mi rinvia l’impressione che  di me gli altri si sono  costruita.
Goffman attraverso la nozione di “faccia” ha descritto la nozione ritualizzata di questo fenomeno: la presentazione di sé attraverso l'espressione, la parola, i gesti, le posture, il comportamento, il modo di pettinarsi e di vestirsi, i tatuaggi... Tutto mira a produrre un’immagine che ciascuno propone e desidera vedersi confermare dagli altri. Ogni interpretazione dell’interlocutore lontana dal significato che il soggetto intende dare è vissuta come attacco e minaccia per “la faccia” che egli rivendica.

La minaccia al proprio io 
da parte degli altri 
(J. Ensor, I cattivi dottori)
Non è certo anormale che ogni singola presa di posizione sia  accompagnata da paura, insicurezza o ansietà per l’immagine che gli altri si potrebbero costruire di noi. E’ un’interazione complessa  che non esclude il conflitto tra l’immagine percepita e l’immagine concepita,  tra “l’identità sociale e l’identità  intima”.

Un rapporto complesso 
con le nostre maschere...
(J. Ensor, L'intrigo)
Eppure ci sarebbe la   condizione strategica per controllare l’immagine positiva della propria identità: basterebbe serenamente e costantemente (ma anche faticosamente) gestire, vivere e mostrare  il processo di costruzione o ricostruzione della propria identità senza contraddizioni tra ciò che si è e ciò che si deve e vuole essere.

... tra ciò che si è e ciò che si vuole essere 
(J. Ensor, Autoritratto con maschere).

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venerdì 12 giugno 2015

L'Europa e la scuola, l'Islam, il laico cristiano.

Riporto il secondo estratto  della relazione dal sottoscritto tenuta ad Albenga in occasione dell’inaugurazione del circolo ingauno ACLI. Il primo estratto è stato pubblicato su questo blog il 9.6.15 .

Video introduttivo (si consiglia di mettere in pausa la musica del blog prima di avviare).

 

Europa: la scuola e i giovani. 
Il Miur in questi anni ha inondato le scuole di ordinanze, circolari, progetti europei: non so con quali risultati, perché la cittadinanza europea non si costruisce ope legis, ma attraverso la creazione di un clima educativo di convivialità, accoglienza reciproca delle differenze. Diceva ai giovani papa Giovanni Paolo II nel 2003: “L’Europa di domani è nelle vostre mani. Voi lavorate per restituire all’Europa la sua vera dignità: quella di essere il luogo dove la persona, ogni persona, è accolta nella sua incomparabile dignità”. 

Ancora Europa.
Sono passati 12 anni e quei giovani sono diventati adulti, ma credo che anche ai giovani d’oggi si potrebbe rivolgere la medesima accorata sollecitazione. Certo, le riforme le fanno gli organismi legislativi ed esecutivi europei: penso al superamento della  schizofrenia tra l‘Europa degli stati e dei popoli, lo scarto tra principi dichiarati e politiche perseguite; penso a quanto siano diffusi il Neet, l’abbandono scolastico, la disoccupazione giovanile, l’esclusione sociale; c’è urgenza di rendere attrattiva e di qualità la formazione professionale, in particolare il livello terziario (ITS), tagliato su misura delle esigenze del giovane e del territorio…

Educare a sentirsi parte 
di una comunità...
Ma  la scuola deve fare  la sua parte sviluppando, in progressione e  nella quotidiana interazione docenti-studenti-genitori, il senso di appartenenza a  "comunità" sempre più vaste: famiglia, scuola, città, territorio, Italia, Europa, il pianeta Terra. Con precisi obiettivi: il protagonismo degli studenti (Erasmus, scambi tra scuole, azioni di volontariato in altri paesi);  la conoscenza della  Carta dei diritti delle persone e delle specifiche identità  dei paesi membri per comprenderne la diversità culturale e dialogare; percorsi di pace in rete (con le altre scuole del territorio, della regione, della UE sino all’ONU)  ...

...oltre le frontiere nazionali.
L’Europa: e l’Islam?
Nell’epoca che stiamo vivendo gli scontri di civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale. Come può affrontare l’Europa l’incontro fra civiltà diverse, in particolare l’Islam, che è stato a lungo il suo  nemico esterno? Europa ed Islam non sono due concetti estranei tra loro.

La minaccia degli scontri di civiltà 
(Picasso, Guernica, particolare).
Non si può definire estranea una cultura che in vari periodi storici  ha dominato a lungo  in vaste zone dell’Europa. 

Uno sguardo retrospettivo
Cristiani e musulmani giocano a scacchi 
(Miniatura XIII secolo).
Penso agli emirati arabi in Sicilia ed in Spagna, ai cittadini musulmani della penisola balcanica, alla Bosnia ed Albania, ai numerosi  emigranti musulmani che  sono una parte non secondaria né marginale della società europea.

Socrate con i suoi allievi, 
Manoscritto arabo, XIII secolo.
La cultura occidentale  non sarebbe  ciò che è  se l’Islam non avesse fatto da tramite nel restituirle gran parte del sapere classico (matematico scientifico medico filosofico) con l’aggiunta di straordinari apporti indiani persiani cinesi.

Studiosi arabi e occidentali 
che studiano insieme geometria, 
(Manoscritto arabo, XIII secolo).
Non c’è ragione che i musulmani, come i cristiani, non possano essere buoni cittadini europei,  oggi e domani. E non regge l’allarme relativo all’invasione dei migranti ed agli estremisti. Quanto ai migranti mi limito ad una citazione, che non vuole provocare ma far pensare:“Ci rendiamo conto che non abbiamo politici in grado di affrontare l’immane fatica di pensare un mondo “altro”. Ma saremmo fuori dalla civiltà e dalla stessa fede, se stabilissimo che è “naturale” far pagare agli “ultimi” la nostra voglia di vivere e la smodata presunzione di essere “superiori” ai comuni mortali. L’Occidente è ad un bivio. O smette di dirsi umano e cristiano […],oppure “condivide” ciò che è ed ha: cultura, tradizione umanistica, diritti umani, fino a questa terra che è di Dio, e dunque di tutti, questo pane che la terra ancora ci dona. Nessuno pensa che sia cosa da poco, ovvia e di immediata attuazione. Non è follia, è l’unica saggezza possibile”(F. Scalia SJ, in Adista n. 17, 09.05.2015).

Un musulmano e un cristiano 
suonano il liuto 
(XIII secolo).
Quanto ai fondamentalisti è bene tener presente che l’Islam non è per niente monolitico: esistono tanti Islam quante sono le comunità e le confraternite islamiche, che non hanno autorità una sull’altra. Eppure tutte convergono nel dichiarare che il  fanatismo è una lettura fanatica e violenta che altera e tradisce l’ispirazione profonda del Libro sacro, come riconosce papa Francesco nell’Evangelii gaudium: “il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono a ogni violenza” (Eg252).

Studiosi in una libreria abbaside 
(XIII secolo).
Ciò che si deve stigmatizzare è invece il razzismo, non tanto e non solo quello becero e plateale dei comizi e dei media ma quello più nascosto, sornione, ancor più pericoloso: l'etnocentrismo, “violenza - scrive Cardini - che non accorda dignità a codici di valore diversi dai nostri”. L’unica via della pace è quella di prendersi cura dell’altro e dell’altra religione, accettare le innegabili differenze come ricchezza e fecondità, senza nascondere la propria identità, senza ingannare l’altro con accomodanti sincretismi; è ascoltare e dialogare per essere capaci di riconoscerne i valori, per incontrarsi senza sospetti e sognare insieme il futuro di fratellanza e convivenza pacifica.

Il sogno di una convivenza pacifica.
L’Europa: e il laico cristiano?
Mi sembra quanto mai attuale la “lettera a Diogneto”:  il cristiano è nel mondo senza essere del mondo,  "ogni terra straniera  è la sua patria e ogni patria è terra straniera".  Il vangelo non ci consegna una cultura, non fa di noi una cittadella.

Un testo ineludibile.
Il laico cristiano abita le culture degli uomini, si rifiuta di avere un tempio a parte, penetra ogni cultura, tutto assume discerne e giudica nell’orizzonte della propria fede. Nella città postsecolare, interdipendente e globalizzata che oggi si chiama Europa,  con tutte le persone che credono fermamente nella convivenza e nella pace deve lealmente condividere i diritti e doveri di cittadinanza attiva, in particolare la scommessa della solidarietà che propone un cammino politico e sociale in cui il  neoliberismo senza regole non può avere posto. 
Il laico cristiano abita 
le culture degli uomini...
L’unità  europea si fa innanzitutto con le grandi idee, la cultura, il dialogo, la volontà di pace. Volere la pace – ci ricorda E. Bianchi - significa vivere il principio di alterità, ovvero  assumere la responsabilità verso l’altro come criterio essenziale di orientamento delle scelte personali e politiche. Vuol dire accoglienza di chi chiede aiuto, attenzione all'educazione dei giovani, distribuzione equa delle ricchezze, solidarietà tra paesi ricchi e poveri, rispetto di ogni uomo e donna e soprattutto per il cristiano che testimonia il paradosso dell’amore, l'abolizione dell’inimicizia, lo smascheramento di ogni idolatria,  la vigilanza per non cadere nella tentazione del potere e della corruzione. In piena sintonia con l’esortazione, laicissima, contenuta nel  preambolo della costituzione europea del  2003 (approvata ma mai ratificata)  di “proseguire questo percorso di civiltà, di progresso e di prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi”.

...per realizzare insieme 
un cammino di civiltà.
Portare avanti questo cammino di civiltà dell’Europa è il compito che spetterebbe ad ognuno di noi, giovani ed adulti, donne ed uomini, secondo le proprie  responsabilità e carismi. Nell’attuale diffuso smarrimento e disincanto ci vuole coraggio: il coraggio dei giovani, il coraggio di avere più coraggio. “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”: così terminava con perentoria fermezza il documento di Ventotene, firmato dai giovani Spinelli, Rossi, Colorni.

L'Europa di domani 
è nelle nostre mani...
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martedì 9 giugno 2015

L'Europa ad un bivio?


Grazie a Martina Isoleri 
e a tutti i partecipanti.

Riporto in due puntate alcuni estratti della relazione dal sottoscritto tenuta ad Albenga, in occasione dell’inaugurazione del circolo ingauno ACLI. Alla prima  (“L’Europa ad un bivio?”) seguirà  “L’Europa, la scuola, l’Islam, il laico cristiano”.


Delle tappe che hanno caratterizzato sinora la UE dei 28 stati oggi aderenti vorrei ricordare la prima, la “dichiarazione di Schumann” del 9 maggio 1950, giorno poi scelto dal Consiglio europeo come Festa dell'Europa: primo discorso politico ufficiale che prospetta una comunità europea economica tra sei stati  in vista di una futura integrazione politica e federale. Dopo le tragedie della seconda guerra mondiale la dichiarazione ha dato l’avvio al processo di integrazione con la sola forza della ragione, rivoluzionaria novità rispetto alle annessioni prima imposte manu militari.


Il sogno dei padri fondatori (Spinelli, De Gasperi, Schumann,  Adenauer, Monnet…) ha trovato un progressivo inveramento  solo parziale perché il loro sguardo mirava molto più  lontano, ad una Federazione degli Stati Uniti d’Europa. 
L’Europa è un sogno antico ed una speranza nuova. Vi racconto  perciò il mito di Europa, un’invenzione dei Greci più di 2500 anni fa. Europa è una principessa che  una mattina coglie fiori nei prati lungo la marina asiatica del Mediterraneo. Viene scorta da Zeus, che si  muta in torello, emerge dalle onde e si avvicina alla fanciulla. Europa, splendida e coraggiosa, sale sulla groppa, il toro balza in piedi e si butta tra le onde. La  conduce nell’isola di Creta, dove si unisce  a lei presso una fonte trasformata in talamo nuziale ed Europa  diventa “madre  di nobili figli”.

Pompei, Il ratto di Europa.
Perché cito questo mito? Per sua natura il mito suggerisce ciò che la fredda ragione (l’èsprit de géometrie) da sola non produce: va oltre la scienza, la politica, l’economia pur indispensabili; si fa immaginazione anticipatrice, passione, speranza, promessa di fratellanza. Il mito ci suggerisce che l’Europa non può essere data in mano ai soli  politici ed economisti: si deve immaginare e sentire come fascino di un’avventura di tutti, trionfo dell’ésprit de finesse, dei popoli, della reciproca ospitalità e non mosaico di  egoismi particolari.

E’ il sogno ad occhi aperti, in pieno conflitto mondiale, di A. Spinelli e E. Rossi, antifascisti confinati sull’isola di Ventotene dal 1941 al 1943 perché considerati ostili al regime mussoliniano. Scrivono “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un Manifesto”. Molti aspetti appaiono datati o dichiaratamente  ideologici, ma l’idea di fondo  è splendida follia profetica. “In attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”, delineano il futuro della Federazione degli Stati Uniti Europei, la cui premessa è la riforma della società secondo “il principio cardine che non è la sottomissione degli uomini all’economia, ma un suo controllo ed indirizzo”.

Una Federazione europea che segni la fine definitiva delle politiche nazionali esclusiviste: unico esercito,  politica estera e mercato; potere di determinare i limiti amministrativi dei vari stati associati; libertà di movimento di tutti i cittadini; magistratura federale, apparato amministrativo indipendente, legislazione e organi di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini…

Ebbene, consideriamo ora la nostra Europa di oggi sotto stress: dilagano euroscetticismo, paure e diffidenze; difficoltà a trovare un percorso comune di accoglienza per impedire le stragi dei migranti nel Mediterraneo; prevalere degli egoismi  ed interessi nazionali… Non ho competenze per entrare nel merito di questa Europa, per quanto ben consapevole che senza la crescita dell’occupazione e degli investimenti, senza una politica economica funzionale tutto sarebbe perduto. Mi limiterò ad offrire qualche riflessione, porre interrogativi e soprattutto invitare a voler vivere questo tempo di intermezzo tra il non più ed il non ancora, nell’attiva speranza di  una compiuta Europa.

Le domande sono: Quale Europa si sta costruendo e che cosa vuol dire essere europei? Che sarà l’Europa senza la passione, i sogni dei giovani? Educare alla cittadinanza europea è  un’opzione o un dovere della scuola? Quale rapporto tra Europa ed Islam? E io laico cristiano che ci sto a fare in un’Europa multiculturale? Parlare dell’idea di Europa non è  parlare di una “res” fumosa, ma di noi, del nostro futuro, del nostro quotidiano vivere le relazioni con gli altri, della nostra  casa in cui abitiamo.

L’Europa non può ridursi solo a un concetto geografico o politico od economico. Scriveva Morin:“ La sua originalità è per così dire la sua mancanza di unità. L’Europa è  una nozione dai molti volti. […] L’Europa non ha unità se non nella sua molteplicità e attraverso essa. Sono le interazioni tra popoli, culture, classi, stati, che hanno intessuto un’unità, essa stessa plurale e contraddittoria”. Europa significa pluralismo, identità con  diverse appartenenza: un concetto complesso dai mille volti. 

Nei secoli ha prodotto la civiltà classica, greca e romana, il cristianesimo, il nesso chiesa-impero, le grandi letterature nazionali, la filosofia, l’arte, la musica, l’umanesimo ed il razionalismo, la grande rivoluzione scientifico-tecnica iniziata nel 600, ma anche roghi e caccia alle streghe. Ha prodotto divisioni, conflitti religiosi, guerre mondiali, dominazioni coloniali; ha attuato libere istituzioni, libere costituzioni democratiche, carte dei diritti ma anche regimi totalitari e discriminazioni di ogni tipo.

Ma a ben vedere in queste contraddizioni c’è una linea divisoria abbastanza netta tra  particolarismi ed interessi immediati (che hanno prodotto sempre e solo divisioni e guerre) e la cultura che tende a universalizzare i diritti dell’uomo, la lotta contro ineguaglianze e discriminazioni, l’impegno per la pace. Una complessa universalità che vede sfilare ed unire in un comune patrimonio di civiltà Dante Michelangelo Leonardo Cervantes Shakespeare Copernico Galilei Newton Cartesio Pascal Spinoza Molière Beethoven Kant Goethe Mozart Chopin Proust Tolstoj Dostoevskij Kafka Picasso Stravinskij Einstein Freud, per citarne alcuni…


La vocazione universale dell’Europa è così vera che all’UE nel 2012 non a caso è stato assegnato il premio Nobel per la pace, perché si presenta come strumento di pace e di rispetto  per ogni uomo. A dare slancio all’Unione è dunque una scelta di cultura. Dopo secolari contrasti e guerre le diversità nazionali cessano di essere motivi di conflitto ma arricchiscono un comune patrimonio culturale, superando progressivamente e faticosamente le idee stantie e false di nazione intesa come etnia o unica fonte dei diritti di cittadinanza.  

Questa vocazione al rispetto ed alla promozione dei diritti umani è talmente consapevole che da anni esiste nel Parlamento europeo una Commissione specificamente preposta alla verifica dello stato dei diritti umani nell’intero mondo. Non solo: il rispetto di tali diritti è “conditio sine qua non” sia per consentire l’accesso di altri Paesi dentro l’Unione  sia per stabilire rapporti di aiuto con i Paesi del cosiddetto terzo-quarto  mondo.

Allora è vero - sostiene padre Zanotelli - che oggi l’Europa, patria dei diritti umani, rischia il naufragio, se non saprà accordarsi su una comune politica di accoglienza nei riguardi dei “naufraghi dello sviluppo” e  se non saprà dire di no alla “cultura dello scarto”?

Si consiglia di mettere in pausa la musica del blog prima di avviare il video.


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sabato 6 giugno 2015

L'ora prima di Erri De Luca.

Queste pagine non provengono da insonnie 
ma da risvegli
(Erri De Luca). 
Post a cura di Rossana Rolando.

Erri De Luca, Ora prima
Ho letto “Ora prima” di Erri De Luca (edizione Qiqajon, Bose 1997). 
E’ il libro di un uomo che non arriva alla fede, ma che legge e rilegge l'antico ebraico delle sacre Scritture.
E’ il messaggio di un non credente che porta il credente a riflettere sulla propria fede.
E’ il dono di una persona inquieta alla ricerca di veri significati per vivere.
E’ la testimonianza di chi riconosce nella Bibbia il grande codice culturale dell'Occidente, oltre che il riferimento ineludibile per chi pensa di aver fede.

martedì 2 giugno 2015

Il tempo presente della Costituzione.


2 giugno:  festa della Repubblica Italiana. Ma anche giorno dell'elezione dell'Assemblea Costituente. Giorno che strettamente, inscindibilmente,  unisce Repubblica e Costituzione. E a questo indissolubile legame dedichiamo oggi le riflessioni che seguono. 


Qualche anno fa – ero allora preside ad Albengachiesi al comitato studentesco del mio Liceo che cosa pensasse della Costituzione, della Resistenza, della Democrazia e della Pace. Una prima decisiva riflessione che emerse fu, da parte di un nutrito numero di studenti,  che la Scuola non poteva dirsi neutrale, perché era “partigiana”, parteggiava cioè per la Costituzione, senza faziosità settarie ma senza confusione. 


I fondamenti valoriali della scuola erano e sono i primi 12 articoli della costituzione: dignità del lavoro, diritti inviolabili della persona e pari dignità di tutti, solidarietà politica economica e sociale, impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono libertà  uguaglianza partecipazione dei cittadini, libertà religiosa, sviluppo della cultura e libertà della ricerca,  tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico, accoglienza dello straniero, ripudio della guerra come valore essenziale dell’educazione,  correlazione tra pace e giustizia sociale e internazionale.

 

Il tema della memoria delle origini della nostra democrazia è centrale nello sviluppo di una cittadinanza attiva giovanile. 


Per  noi  adulti  il tempo è costituito da un passato, dal presente e in minima parte da un futuro. Per i giovani il tempo è costituito soprattutto dal presente ed il futuro appare più come minaccia, che come promessa. 


E’ inutile che noi ci lamentiamo che i giovani non sanno progettare, non sanno guardare al futuro. Uno dei risultati del modo con cui stiamo gestendo la società è la deprivazione del futuro per i giovani, l’impossibilità per loro di progettare a medio e lungo termine. L’unica realtà che è loro consentito di percepire è collocata nel presente, in un presente dilatato, senza confini precisi; non determinato da un passato per loro incomprensibile data la velocità dei cambiamenti realizzati, non proiettabile in un futuro data la totale incertezza nella quale si vive.


E allora, come chiedere ai giovani di guardare al passato e commemorare ricorrenze come questa? 


La celebrazione del 2 giugno, appunto perché celebrazione, appare sempre più, man mano che ci si allontana da quel periodo storico, un patrimonio di pochi, di una minoranza di Italiani. 



Se da una parte difendere e mantenere tale memoria è imperativo di fronte all’incalzante propensione ad una rimozione collettiva, dall’altra dobbiamo renderci consapevoli che l’indifferenza di tanti giovani non è determinata solo dalla scarsa conoscenza della storia, ma dal fatto che gli adulti, e la scuola in particolare, non trasmettono abbastanza la passione e la forza delle emozioni, non suscitano partecipazione ad  ideali sempre vivi ed universali.


Il messaggio è chiaro: i nostri giovani esprimono l’esigenza di attualizzare queste celebrazioni, attribuendo loro nuovi significati. Manteniamo viva la memoria, ma assegniamo anche una connotazione aggiuntiva,  che superi la funzione riduttivamente commemorativa e che diffonda i valori fondamentali della Costituzione repubblicana: il primato della persona umana, la solidarietà, la democrazia, la partecipazione, la libertà, il ripudio della guerra. 



Valori non acquisiti una volta per tutte, ma da difendere e costruire giorno per giorno, mantenendo alto il livello di attenzione.




Collocata nella dimensione attuale, la memoria diventa allora una vera festa:  essere liberi è una festa, è motivo di gioia,  perché è la libertà che mi permette di essere me stesso insieme agli altri. La nostra umanità si esprime nella nostra libertà.

 


1. (Nota all'art. 7, secondo comma). I Patti Lateranensi sono stati modificati dall'Accordo concordatario del 18 febbraio 1984, reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121 (G.U. 10 aprile 1985, n. 85, suppl.).
2.  (Nota all'art. 8, terzo comma). A regolare tali rapporti sono intervenute le leggi 11 agosto 1984, n. 449, 22 novembre 1988, n. 516, 22 novembre 1988, n. 517 e 8 marzo 1989, n. 101 (G.U. 13 agosto 1984, n. 222; 2 dicembre 1988, n. 283; 23 marzo 1989, n. 69), emesse sulla base di previe «intese- intercorse, rispettivamente, con la Tavola valdese, le Chiese cristiane avventiste, le Assemblee di Dio e le Comunità ebraiche, e più di recente le leggi 5 ottobre 1993, n. 409 (G.U. 11 ottobre 1993, n. 239), 12 aprile 1995, n. 116 (G.U. 22 aprile 1995, n. 94), 29 novembre 1995, n. 520 (G.U. 7 dicembre 1995, n. 286), 20 dicembre 1996, nn. 637 e 638 (G.U. 21 dicembre 1996, n. 299), per la regolamentazione dei rapporti con altre confessioni o per la modifica delle precedenti intese.
3. (Nota all'art. 10, quarto comma). A norma dell'articolo unico della legge costituzionale 21 giugno 1967, n. 1 (G.U. 3 luglio 1967, n. 164), «l'ultimo comma dell'art. 10 della Costituzione non si applica ai delitti di genocidio.


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