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Visualizzazione post con etichetta società e comunità. Mostra tutti i post
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martedì 15 luglio 2025

Disfunzioni della famiglia

 Post di Rossana Rolando
 
“Sàlvati, lasciami per sempre” 
(p. 113)
 

Vivo un’estate all’insegna della cura, tra ospedali e riabilitazioni di miei familiari. E’ l’esperienza della famiglia come luogo di affetti profondi e di sollecitudine. Eppure, vi può anche essere un vissuto opposto, come quello che racconta l’ultimo Premio Strega, L’anniversario, di Andrea Bajani. 
 
Esso presenta - come una liberazione – la ricorrenza di una separazione definitiva. Non stupisce di per sé: la nostra vita è costellata di distacchi, spesso dolorosi, altre volte necessari. Quel che rende però peculiare la svolta di cui il libro tratta è la sacralità dei legami che vengono recisi, quelli che da sempre sono avvertiti come segnati dal destino e quindi intoccabili. Sono i vincoli che si instaurano all’interno di quella cellula sociale da cui tutti proveniamo – la famiglia – che pure può diventare deposito di mille tensioni e disfunzioni, tenuta insieme da una vera e propria “malattia psichica” (p.122). Di questo l’autore si occupa, non solo con chiari tratti biografici, ma anche nella sua professione di insegnante universitario, in Texas.

venerdì 6 gennaio 2023

Omologazione e identità.

Post di Gian Maria Zavattaro.
Immagini di Ottorino Stefanini (qui il sito).

Ottorino Stefanini, Uomini aquiloni
In questo 2023 ogni giorno continueremo a fare i conti con una quotidiana tentacolare tentazione, penoso ridicolo terrificante inganno chiamato “pensiero unico”. In realtà è modalità esistenziale tutta estranea al pensare: il pensiero si nutre di consapevolezza e di autonomia culturale temprate nel crogiolo del dubbio e dell’infaticabile ricerca del bello del vero del buono del giusto.
 
💥 “Pensiero unico”: modalità ammiccante che ci solleva dalla fatica di pensare, non fa perdere tempo prezioso agli affari nostri e altrui, evita di dispiacere nelle discussioni, è rassicurante, ci conforta di comuni certezze che tutti condividono, è la barriera dalla quale ci sentiamo protetti contro “gli altri”. “Pensiero unico”: modo di relazionarci e socializzare che ci affranca dalla sfuggente anarchia del “mio tuo suo nostro vostro loro pensiero”, impone sentimenti ed emozioni, prescrive gesti comportamenti posture linguaggi verbali e non verbali.
Per i recalcitranti si tratta invece d’intollerabile perdita dell’identità di ciascuno e di alterazione delle relazioni personali e sociali: si chiama “omologazione”, erogata e dosata a tutti da faccendieri, seduttori e accalappiatori di professione per impinguare il loro business economico e ancor più politico.

sabato 10 dicembre 2022

Lo Stretto - Note di costume.

Post di Rosario Grillo.
Immagini di Filippo Juvarra (Messina 1678 - Madrid 1736).

“Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia” (proverbio).
 
Filippo Juvarra, Stretto di Messina
La fata Morgana è un fenomeno fisico-ottico, comune nell’area dello stretto di Messina. Fa apparire in lievitazione gli oggetti (anche i velieri) in orari specifici del giorno; è dovuto alla rifrazione della luce. Ben si presta a raffigurare il gioco di illusione/delusione che segna tante esperienze vissute dalla gente del posto. Lo Stretto, come si sa, è luogo zeppo di leggende e tradizioni, alcune delle quali derivanti dai miti e dai poemi greci. Tra questi, le Sirene, sembra fossero allocate in questi paraggi. Sul loro inganno sono state rese molte versioni.
 
✨Messina e i messinesi
Non verrebbe in mente a nessuno di scegliere Messina come topos della Sicilia. Tanto meno dei siciliani. L’esclusione di fatto obbliga a dichiarare il chi, il che e il come dell’identikit della Sicilia e dei siciliani. Fra tanti emerge e si impone: “u mafiusu”.
U mafiusu, prima di essere l’affiliato della cosiddetta mafia, è stato un tipo di comportamento, che va dal “patronage” alla spavalderia ostentata, messa in mostra per distinguere il proprio io, per accattivarsi omaggi ed ossequi.
Così descritto, è facilmente chiara la contrapposizione al messinese: “buddaci”. Nulla a che vedere con il Buddha, perché “buddaci” è piuttosto una persona pavida rivestita di “paladino”. Sì, proprio uno dei paladini di Carlo Magno!

sabato 19 novembre 2022

Territorio e comunità.

 Post di Rosario Grillo.

“In geografia quello che veramente conta è ciò che non c’è. Perché quello che manca va pensato, desiderato, immaginato”. 
(Matteo Meschiari)
 
Natalie Smith Henry, Local industries, 1940, Murale, American Art Museum
“Mettere a fuoco” e “inserire nel contesto”: riflettono la stessa azione. La prima, derivata dalla tecnica fotografica, la seconda riconducibile ad un gioco di costruzione (architettura).
Tra i docenti, la seconda si lega ad un imperativo logico-euristico, rivolto al discente in funzione di orientamento critico e di addestramento a idonee chiavi di lettura.
La assumo per introdurre una disamina del concetto di territorio. Aiuta la comprensione, la delucidazione iniziale circa la vicinanza tra luogo e territorio. Scelgo il secondo, in quanto incorpora da subito la terra nel discorso sul territorio.
Se è corretto riconoscere semplicemente con territorio un terreno assegnato, forse, forzando un po’, si può ricondurre il finale “orio” ad un possibile “orior” dal latino (sorgere). Così facendo, si riesce ad evidenziare il momento sorgivo del territorio e viene soddisfatto il rispetto del codice contestuale.
(Sto argomentando in punta di filologia e chiedo di impostare il piano di prospettiva alla parola).

lunedì 30 agosto 2021

In dialogo con la solitudine.

Post di Gian Maria Zavattaro.
Immagini dei dipinti di Enrico Ganz (qui, il sito).

Enrico Ganz, Uomo solo
La solitudine è comunione, apertura agli altri e non c’è comunicazione che non abbia come premessa la solitudine che dia ali alle parole e le riempia di contemplazione e di silenzio. La solitudine nasce dall’interiorità ed è uno stato dell’anima che si costituisce come momento diastolico della vita: come dimensione essenziale di ogni relazione fondata sull’alterità. E’ un’esperienza interiore che ci aiuta a dare senso alla vita di ogni giorno e ci consente di distinguere le cose essenziali da quelle che non lo sono … Nella solitudine e nel silenzio che sono in noi avvertiamo l’importanza della riflessione e meditazione, delle attese e delle speranze alle quali ispirare i nostri pensieri e le nostre azioni. Solo così è possibile sfuggire all’egoismo e alla mancanza di amore, alla noncuranza e all’indifferenza, tentazioni che non ci consentono di realizzare i valori autentici della vita: la comunione e la donazione, la partecipazione al destino degli altri e l’immedesimazione nella gioia e nelle sofferenze degli altri. Valori che realizziamo solo se riusciamo a tenere viva nel cuore una solitudine aperta al mondo della vita” (E. Borgna,  In dialogo con la solitudine, Einaudi, To 2021, pp. 94-95).
 
“La solitudine è l’anima nascosta e segreta della vita, ma come non avere la sensazione che oggi nel mondo della comunicazione digitale sia grande il rischio di naufragare nell’isolamento? L’espressione della pandemia, che ancora permane, ha posto tutti di fronte al significato della solitudine…” (1).
 
In questo nostro mondo sorpreso dal covid ogni giorno assistiamo ad un tentacolare conturbante intreccio di innumerevoli solitudini, isolamenti e gesti di fraternità - compresenza di speranze e disperazioni - vortici di sconvolgenti tragedie e babelici incuranti divertimenti: umanità che si agita in balia di una febbre dove “tutto passa e sia rabbia, amore o demenza tutto passa, con volo fulmineo, varca i limiti cupi d’ogni coscienza e tutto si  presenta e si indovina prima che affondi in cuore, come spina dritta, d’un colpo solo” (2).

martedì 10 agosto 2021

E' possibile costruire comunità oggi?

Post di Gian Maria Zavattaro
Immagini di Ottorino Stefanini (qui il sito).

Ottorino Stefanini, Singolare collettivo
In un mondo dove tutto è visto come provvisorio, dove si chiede disponibilità e flessibilità, dove ci vogliono sempre pronti con la valigia in mano per adattarsi ai bisogni del lavoro, per cogliere nuove opportunità, è possibile "Costruire comunità"? Quali spazi vi sono per prendersi cura degli altri, per assumersi la responsabilità di collaborare a costruire una comunità? La società liquida è la fine delle comunità? Segna il tramonto dell'Uomo come persona e il trionfo dell'Uomo come individuo? Un individuo senza comunità quali punti di forza può sviluppare e a quali debolezze e povertà va incontro? Cosa si può fare per permettere agli uomini di essere persone, parti di comunità dove ci si prende cura gli uni degli altri? Quale ruolo della fede? quale ruolo della cultura? quale ruolo della politica? Quale ruolo delle associazioni? Qual é il nostro ruolo di persone che credono ancora che una vita "ricca" debba essere vissuta nelle comunità degli uomini?”
(Prof. Paolo Gallana, Biella 2013).
 
Quello che oggi noi di “Persona e Comunità” vorremmo comunicare è chiarire, senza pretese astrattive, innanzitutto a noi stessi, il significato di comunità in questo tempo di covid e riflettere  non su che cosa fare ma su come fare per essere-diventare persone e perseverare nel costruire comunità.
È un cammino in atto - per lo più silenzioso - ovunque nel mondo, laddove abitano tenerezza e agape, si lenisce il dolore, si vive la fraternità e sororità. La comunità esiste ed è esistita nella mente e nel cuore di tanti e, anche se realizzata in modo incompiuto in tempi-luoghi circoscritti, rappresenta un'aspirazione fattibile per quanto imperfetta, per il credente anticipazione-presagio del Regno. E tanto per essere concreti chiediamoci allora se la viviamo in famiglia a scuola nel lavoro nel sociale nella fede che professiamo. 

domenica 20 settembre 2020

Risposta ai negazionisti del coronavirus.

Post di Rosario Grillo

Ritratto di Ippocrate, studiolo di Federico da Montefeltro

La medicina ippocratica.
La cura del corpo, affetto da qualche morbo, è ascrivibile solo all’idoneità/efficacia della medicina prescritta? O vi rientrano anche componenti sociali? La domanda non è oziosa nemmeno meramente tecnica. Sollecita alla messa in luce delle implicazioni sociali delle malattie. Si può dimostrare, cioè, che la malattia non è un affare privato, legato solo allo stato di salute di un individuo, alla vulnerabilità del suo organismo e/o all’usura degli organi vitali. La biologia è strettamente connessa all’ambiente, intendendo questo sia come ambiente naturale sia come complesso sociale. Già nel corpus hyppocraticum (1) il “Trattato sulle arie, acque e luoghi” dava chiara descrizione dell’influenza  che “città, azione del sole e dei venti ...” esercitano sul mantenimento della salute e, in conseguenza, sul legame tra le malattie e le stagioni, tra le stesse e le diverse regioni della terra. Del resto, la dottrina sulla influenza del clima sul carattere e i costumi delle genti è diventata oggi patrimonio comune. Dal corpus partirono inoltre i primi impulsi a riconoscere l’importanza: della combinazione medico-paziente, del peso chiave della risposta del paziente nel procedere della cura. Fedele conferma ne dà il giuramento  ippocratico, propedeutico alla professione medica, dove si riassumono espressioni come: “giuro...di attenermi  ai principi di umanità e solidarietà  nonché a quelli civili di rispetto dell'autonomia della persona; di mettere le mie conoscenze a disposizione dei progresso della medicina, fondata sul rigore etico e scientifico della ricerca, i cui fini sono la tutela della salute e della vita; […] di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’autorità competente in caso di pubblica calamità...” (2)

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sabato 8 ottobre 2016

Il terremoto del volontariato.

Di Gian Maria Zavattaro.

“Noi non siamo degli oppositori qualunque oggi e dei conviventi qualunque domani.
Prima, dopo e sempre siamo ”oppositori” e”conviventi”dei liberali, dei socialisti, dei comunisti
e dei democristiani. Ci pieghiamo solo alla verità e alla carità”.
Don P. Mazzolari, in  Adesso, luglio 1954 (rivista quindicinale da lui fondata nel 1949)

Beppe Giacobbe, 
 Giovani
(Segui i tuoi sogni)
Quanto don Mazzolari diceva della sua rivista penso si possa estrapolare ed applicare anche al “volontariato”: prima, dopo e sempre convivente” con la società attuale, di cui condivide le contraddizioni cercando di porvi rimedio, e “prima, dopo e sempre oppositore”, in permanente mobilitazione per un’alternativa al modo di vivere la vita sociale,  di comunicare e di relazionarsi.
Il 29 agosto 2016 su “Repubblica” I. Diamanti  in “Terremoto, le due facce del volontariato” discorreva del “ritorno del volontariato, che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per intorno intendo l'intero Paese”. 
Beppe Giacobbe, 
Identità italiana
Secondo lui il volontariato è “un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di attività gratuite a beneficio di altri o della comunità. Citava due indagini statistiche: l’Istat 2014 per cui i volontari in Italia, circa il 13% della popolazione, sono 6.500.000, di cui 4 milioni inseriti in associazioni o gruppi  ed il resto in forme non organizzate; il Rapporto Demos 2015 su Gli italiani e lo Stato per il quale nell'ultimo anno quasi 4 persone su 10 avrebbero partecipato  ad attività di volontariato, in base a necessità o emergenze nazionali e locali. Il volontariato avrebbe due facce: organizzata e non. Progressivamente la prima si è istituzionalizzata in impresa, spesso surrogando  l'azione degli
Beppe Giacobbe, 
Prospettive
Enti locali e dello Stato per rispondere al disagio giovanile, alle povertà vecchie e nuove e, in misura oggi  crescente,  agli immigrati e rifugiati. E’ “Il volontariato di professione
che rischia però la dipendenza dai finanziamenti pubblici e la sottomissione a logiche istituzionali e politiche, non sempre limpide e trasparenti. L'articolista si guarda bene dal demonizzarlo, non solo perché risorsa preziosa sul mercato del lavoro e dei servizi, ma anche perché offre riferimento e sostegno alla seconda “faccia”, “il popolo del volontariato involontario”, fuori dalle imprese istituzionali. Fin qui Diamanti.

domenica 14 giugno 2015

Identità intima e identità sociale. Io e la mia faccia pubblica.


Io e la mia faccia... 
(James Ensor, Autoritratto 
con maschere, particolare)
Io ho bisogno di sentirmi esistere agli occhi di qualcuno, di avere un posto ed un significato in relazione alle posizioni degli altri. Io preferisco di gran lunga essere contestato piuttosto che essere ignorato e non considerato. Io ho bisogno di vedere  accordata e  riconosciuta la mia autostima in modo tale che mi capita di presentare gli aspetti migliori capaci di suscitare approvazione e mascherare, spesso inconsapevolmente soprattutto negli scambi formali, le mie debolezze. “Io” vuol dire “ognuno di noi”, perché nessuno  ama  “fare una pessima figura” né “perdere la faccia”.

...la mia “faccia sociale” 
(J. Ensor, Autoritratto 
con maschere, particolare)
Secondo E. Goffman (Le rites d’interaction, 1974), ognuno di noi  ha la sua bella “faccia sociale” da  salvaguardare: “è l’immagine di sé che ogni persona rivendica nelle relazioni sociali, ricercando una conferma dell’immagine che lui stesso desidera vedere riconosciuta e ratificata dall’altro”.
A me sembra che questo valga sia nel mondo reale  sia in quello virtuale di google o facebook o twitter. Sin dal primo contatto  ci si preoccupa di promuovere  la propria immagine  e richiedere il riconoscimento dell’altro. Un bisogno tanto più cogente  quanto più si è insicuri.

Il bisogno di vedersi 
riconosciuti dagli altri
(J. Ensor, Vecchio uomo con maschere)
Giusto? Sbagliato?  Entrambi, dipende. L’identità che vorremmo fosse riconosciuta (“l’identità sociale”)  non può essere ridotta ad una finzione e ad una maschera: il ruolo sociale non è solo un modo stereotipato di presentarsi agli altri, ma anche “la faccia interattiva del soggetto“, l’espressione socializzata della sua personalità. La parola  scambiata  nell’interazione sociale offre alla “identità intima” l’opportunità di confrontarsi e anche scontrarsi con “l’identità sociale”  di sé. Il confronto  o lo scontro con le immagini degli altri consentono una rivalutazione o una realistica razionalizzazione della propria percezione di sé, un sentimento di identità più stabile, premessa per una migliore comunicazione con gli altri. 

“L'identità intima” 
e “l’identità sociale” di sé 
(J. Ensor, Autoritratto con maschere)
L’identità del soggetto è frutto dello scambio tra  la percezione di sé e lo sguardo degli altri. Quando io ed un’altra persona parliamo, non solo trasmettiamo emozioni sentimenti pensieri, ma reciprocamente tendiamo ad adeguarci allo sguardo dell’altro, a farci riconoscere ed accettare. “Il possesso della parola è relazione di potere“ e contribuisce a influenzare, trasformare positivamente o negativamente l’interlocutore.

Io e lo sguardo dell'altro 
(J. Ensor, I giudici)
Quando parlo  in pubblico, per esempio, so benissimo  di espormi e di assumere il rischio di essere giudicato e bocciato oppure di essere apprezzato e riconosciuto. Nel primo caso il pubblico diventa etereo, quasi invisibile, non trovo su chi fermare lo sguardo per non cogliere forme di rifiuto che mi spegnerebbero; nel secondo caso vivo un’interazione rasserenante che non solo mi gratifica ma mi spinge a dare il meglio di me.

Il condizionamento del pubblico 
(J. Ensor, Musica russa)
Immagino che ognuno di noi, quando parla in pubblico, a suo modo controlli l’immagine positiva della propria identità:  ogni parola è in qualche modo la risultante di una costante negoziazione più o  meno consapevole tra ciò che si vuole comunicare e ciò che in quel contesto conviene dire ed appare accettabile a chi ascolta od  interloquisce. E allora ecco le pause, le esitazioni, le scelte accurate delle parole, le rettifiche, le integrazioni,  i rituali fatti di battute, di gesti, di suadenti sceneggiate...: autoaggiustamenti correttivi che si mettono in atto nell’anticipare o cogliere immediatamente le posizioni dell’altro, le sue reazioni verbali e soprattutto non verbali che esprime e lascia intendere.

Io e la mia immagine... 
(J. Ensor, Le strane maschere)
Dunque l’immagine che io ho di me non è indipendente dall’immagine che gli altri hanno di me: il loro sguardo, il loro comportamento verbale e non verbale sono  una sorta di specchio (anche deformante)  che mi rinvia l’impressione che  di me gli altri si sono  costruita.
Goffman attraverso la nozione di “faccia” ha descritto la nozione ritualizzata di questo fenomeno: la presentazione di sé attraverso l'espressione, la parola, i gesti, le posture, il comportamento, il modo di pettinarsi e di vestirsi, i tatuaggi... Tutto mira a produrre un’immagine che ciascuno propone e desidera vedersi confermare dagli altri. Ogni interpretazione dell’interlocutore lontana dal significato che il soggetto intende dare è vissuta come attacco e minaccia per “la faccia” che egli rivendica.

La minaccia al proprio io 
da parte degli altri 
(J. Ensor, I cattivi dottori)
Non è certo anormale che ogni singola presa di posizione sia  accompagnata da paura, insicurezza o ansietà per l’immagine che gli altri si potrebbero costruire di noi. E’ un’interazione complessa  che non esclude il conflitto tra l’immagine percepita e l’immagine concepita,  tra “l’identità sociale e l’identità  intima”.

Un rapporto complesso 
con le nostre maschere...
(J. Ensor, L'intrigo)
Eppure ci sarebbe la   condizione strategica per controllare l’immagine positiva della propria identità: basterebbe serenamente e costantemente (ma anche faticosamente) gestire, vivere e mostrare  il processo di costruzione o ricostruzione della propria identità senza contraddizioni tra ciò che si è e ciò che si deve e vuole essere.

... tra ciò che si è e ciò che si vuole essere 
(J. Ensor, Autoritratto con maschere).

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venerdì 29 maggio 2015

Dimmi come ridi e ti dirò chi sei...


Cosa si nasconde dietro il riso ....
(Paul Klee, Danza del bambino sognante, 1922)
Un uomo, al quale chiesero perché non piangesse 
a un sermone a cui tutti versavano lacrime, rispose: 
“Io non sono della stessa parrocchia”. 
Ciò che costui pensava delle lacrime 
sarebbe ancor più vero per il riso. 
Per quanto franco lo si supponga, 
il riso nasconde sempre un pensiero d’intesa, 
direi quasi di complicità, 
con altre persone che ridono, reali o immaginarie.
(Henri Bergson, Il riso).

L'ambiguità del riso 
(Annibale Carracci, 
Giovane che ride, 1583)
Un saggio sul riso... 
e le sue ambiguità.
Dalla lettura de Il riso di Bergson (scritto nel 1900, prima della Psicopatologia della vita quotidiana di Freud) possiamo trarre interessanti riflessioni sull’ambiguità del riso.

L'atto del ridere è solo umano 
(Jean Fouquet, Il ritratto del buffone Gonella, 
1447-1450)
L'atto del ridere appartiene solo all'uomo. 
I filosofi hanno definito l'uomo un animale  che sa ridere; forse si potrebbe meglio dire: un animale che fa ridere. In ogni caso il riso è un atto esclusivamente dell’uomo: un paesaggio è bello o brutto, non ridicolo; si ride di un animale, ma solo perché vi si riscontra un'espressione o un’attitudine umana (iena ridens…).

Perché ridiamo? 
(Pittore olandese, 
Sciocco che ride, 1500)
Che cosa suscita il riso?
Il riso comporta, nell’urto con il grottesco e l’assurdo, un’assenza  momentanea di sensibilità nei riguardi degli altri. Solo così ridiamo delle distrazioni  dell'uomo che incespica per la via, che batte il capo contro la porta, che veste in modo bizzarro...

Il riso svela ... 
(Jean Etienne Liotard, 
Autoritratto, 1770)
Il riso può smascherare rituali sociali irrigiditi. 
La “rigidità” è altra fonte che muove il riso: in particolare il cerimoniale della vita sociale cela sempre una comicità latente. Le cerimonie debbono la loro serietà solo al fatto che si identificano con l’oggetto serio cui si collegano e perdono questa serietà non appena la nostra immaginazione trascura il significato della solennità e dimentica il suo fine importante. Allora coloro che vi prendono parte sembrano muoversi come marionette; irrigiditi nei loro gesti meccanici, “fantocci” che generano il comico e noi ridiamo di chi somiglia ad un fantoccio.

Il riso ha un significato sociale 
(Petrov-Vodkin, 1878-1939, 
Teatro, La farsa)
Il riso può assumere una doppia funzione nella vita comune.
Il riso è una forma di  castigo sociale delle distrazioni, degli automatismi e rigidità; perciò ha bisogno di una eco sociale. Pensiamo al comico della caricatura, della imitazione, del travestimento, dei tic, gesti, movimenti, gli ehmmm” di un oratore (l'aspetto al varco e rido)... Ridendo prendiamo le distanze da costoro e ci sentiamo integrati:  è il suo significato sociale, che risponde ad  esigenze della vita comune, non scritte ed anche inconsapevoli.

Il riso come difesa della società  
(Quentin Massys, 
Allegoria della Follia, 1510)
Il riso può diventare un meccanismo difensivo di esclusione.
Ma il riso è anche  un'arma  che la società adopera contro i suoi membri, punendo non solo il distratto, ma l’asociale e chi la contrasta. Naturalmente vi sono diversi modi di essere asociali.

Il riso omologante 
(Jean de La Fontaine, 1621-1695, 
Talete sta per cadere in un pozzo)
Il riso può emarginare chi non è omologato e adattato. 
Vi è il disadattamento della persona integra in ambiente corrotto ed ingiusto: è da ammirare e non deridere. Vi è la distrazione dell'artista e del pensatore cui la meditazione ostacola la continua attenzione alle quotidiane contingenze della vita: Talete che, contemplando le stelle, cade nel pozzo e provoca l’ilarità della servetta; Socrate  tra le “Le Nuvole di Aristofane; Shakespeare che  esce dal teatro senza cappello in capo; Galileo che urta una sedia mentre osserva le oscillazione di una lampada; Spinoza che crede di aver pranzato e si rimette a scrivere con il pranzo pronto e caldo... Chi ride di loro e la società che li perseguita hanno torto perché dalla loro apparente estraneità sociale nascono i doni più rari e più utili che tutti gli altri mai riusciranno a dare... 

Il  derisore che diventa deriso 
(François Huard, 1792-1856, 
Scena del Rigoletto)
Il riso può rendere ridicoli.
Vi sono altre tipologie di riso. Quella dei pusillanimi e dei servi: il ridicolo che improvvisamente cessa di essere tale e si trasferisce dal deriso al derisore, quando, ad es. il signore dal grugno suino, dall'andatura goffa e stravagante attraversa la hall dell'albergo suscitando le risate dei presenti, ma poi passa tra loro una voce ed a un tratto si fanno seri e muti, perché il tipo dal muso cagnino è un uomo che conta e nessuno più ride. 

Il riso ci dice chi siamo 
(Pieter Huys, Giullare, 1570)
Il riso dipende da quello che siamo e/o vogliamo essere.
Ed infine la tipologia degli onesti, dei disonesti e degli imbecilli: il riso dell’uomo “di merito” che esercita una vigile “attenzione alla vita”; il riso dell’uomo fazioso che deliberatamente accresce la dose di ridicolo che emana da ogni persona, perché ognuno di noi ha la sua dose di ridicolo,  e che, in base ai suoi interessi e passioni, deride nemici e persone ingombranti con deliberata, ingiusta offesa e cinica ostilità; il riso infine dell’imbecille, il cui stigma è il detto “risus abundat in ore stultorum”.

Il riso ...

Il riso... 
(Paul Klee, Il folle in trance, 1929).

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