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sabato 1 dicembre 2018

Può esserci arte senza bellezza? Vito Mancuso.

L'arte è davvero tale quando celebra e dona bellezza.
Post di Rossana Rolando.

Mostra Marina Abramovič, Firenze, 
Palazzo Strozzi, 
Fotografia di Alessandro Moggi

C’è una domanda fondamentale all’interno del breve e denso capitoletto dedicato da Vito Mancuso all’approfondimento sull’arte contemporanea, nel suo ultimo libro La via della bellezza (qui la mia recensione), ed è questa: “Perché l’arte sembra aver perso il desiderio di produrre bellezza? Perché prevalgono così tanto la negazione, la storpiatura, la satira, la dissacrazione? Perché questo desiderio di abbruttire piuttosto che di abbellire?”¹
Questi interrogativi sottendono due questioni: la prima, relativa allo statuto dell’arte, mette in discussione la possibilità che si dia arte senza bellezza; la seconda,  conseguenza e radicalizzazione della prima, problematizza la stessa eventualità di poter oggi accedere all’esperienza del bello. Infatti, se l’arte è “il proprio tempo appreso con il sentire”, se è “il più acuto sensore”² di un determinato clima culturale, allora essa esprime nel modo più consapevole il malessere di un mondo disgregato e disarmonico, in cui la bellezza non può trovare spazio.
Se questo è vero, proprio il riferimento all’arte contemporanea e alle problematiche da essa suscitate, risulta cruciale ai fini della tenuta della stessa tesi di fondo del libro: come può la via della bellezza farsi via della salvezza se il sentimento della bruttezza e del decadimento domina il tempo in cui viviamo?
Ma andiamo con ordine.
Il capitolo si apre riportando le annotazioni trascritte durante l'osservazione dei lavori esposti in una rinomata rassegna di arte contemporanea per arrivare a citare, verso la fine, le esecuzioni di Marina Abramovič. Mi soffermo su quest’ultimo eclatante caso, aggiungendo alle considerazioni di Vito Mancuso il frutto della mia personale esperienza. Per chi ha avuto occasione di osservare le installazioni della Abramovič (mio marito ed io lo abbiamo fatto agli inizi del novembre appena trascorso, presso Palazzo Strozzi, a Firenze) il senso di straniamento, forse anche di turbamento è assicurato: esposizione esibita della nudità del corpo, violento gioco della fisicità, ricerca del morboso, del grottesco, del truculento, dell’estremo. Certo la mostra è in grado di suscitare curiosità, sorpresa (per l’eccessivo e l’inaspettato), perplessità, ma può anche generare fastidio fino quasi alla noia. Il numero di visitatori è comunque molto alto, benché non si possa in alcun modo parlare di un’esperienza estetica del bello o del sublime.
Come dobbiamo giudicare questa modalità dell’arte contemporanea? E’ ancora appropriata, per essa, la definizione di arte? La convinzione di Vito Mancuso è espressa chiaramente: vi è arte laddove vi è produzione di bellezza, altrimenti si ha comunicazione, anche potente, anche civilmente impegnata, di idee, di pensieri tradotti in forme, ma nulla più di questo: ...io penso che molta arte contemporanea sia il sintomo del nostro esserci perduti, del nostro essere privi di una meta ideale, della nostra odissea senza Itaca³.
Si tratta quindi di capire da quando è iniziato questo processo, da quando l’arte si è fatta idea, concetto, mezzo di comunicazione che richiede spiegazione, avendo perduto del tutto l’immediatezza sensoriale tipica dell’opera d’arte classica (per cui ci si emoziona guardando i cieli e i mari di Turner, i cipressi e i girasoli di van Gogh, i giardini e le ninfee di Monet⁴).
Mancuso distingue due filoni dell’arte novecentesca: l’uno più legato alla tradizione naturalistica, fondata sul concetto di “mimesis o imitazione”, teorizzata da Monet, Klee e Matisse, l’altro (che trova nelle Avanguardie il proprio riferimento paradigmatico: futurismo, cubismo, dadaismo, surrealismo, divisionismo, pop art…) separato dalla dimensione della rappresentazione e tutto giocato sulla forza del concetto che intende comunicare, prescindendo completamente dal “mostro della bellezza”⁵ e dell’armonia.
Naturalmente Mancuso non nega, anzi apprezza figure ed opere geniali dell’uno e dell’altro filone (da Klimt a Chagall, da Kandinskij a Magritte, da Miró a Rothko, da Nolde a Munch, da  Morandi a Giacometti…)⁶, ma non è questo il punto.
Il problema è se l’arte, oltre che essere specchio di un tempo malato, spiritualmente lacerato, insoddisfatto, incapace di armonia (come è nella sua “atmosfera complessiva” l’arte novecentesca)⁷, sia in grado di farsi via di trascendimento ed oltrepassamento, appello ad una dimensione di bellezza, letizia, stupore, mistero, attesa... in una parola tutti quei sentimenti che hanno fatto e fanno grandi le opere d’arte della classicità.
Secondo Vito Mancuso la sorgente per ritrovare questa vocazione dell’arte - un’arte con cui si possa convivere, capace di nutrire l’anima - è  la natura, considerata come generazione sempre nuova di bellezza  e di vita. Un ritorno che non potrà essere inconsapevole e ingenuo, ma mediato, carico di tutto il travaglio del negativo, denso di interiorità. Forse per questo il nome di van Gogh viene citato per ben 13 volte, senza contare le note, nelle pagine del libro, in quanto artista che ha saputo raccontare l'antinomia dell'esistenza trasfigurandola in forme, colori e luce: Se un'opera d'arte non comunica con individuale originalità i sentimenti dell'artista, se li esprime in modo incomprensibile, oppure se non nasce da un'esigenza interiore dell'autore, non è un'opera d'arte.⁸

Note. 
1. Vito Mancuso, La via della bellezza, Garzanti, Milano 2018, p. 52. 
2. Ibidem, p.55.
3. Ibidem, p. 98.
4. Ibidem, p. 47
5. Ibidem, p. 61.
6. Cfr. ibidem, p. 54.
7. Ibidem, p. 54.
8. Ibidem, p. 47: la citazione è relativa a Tolstoj, Che cos'è l'arte.

8 commenti:

  1. Annoierò qualcuno,ma è opportuno risalire ad Hegel per aver contezza della crisi dell’arte. Non è detto che bisogna assumere la sua tesi... a me pare che una certa funzione spirituale e storica dell’arte sia andata in esaurimento a causa del debordare del “ concetto “. Come osservi tu, Rossana, il concettuale toglie spazio ( direi respiro) al l’intuizione, che sono il quid dell’arte e la proprietà dell’artista. Certe avanguardie eccedono nella sperimentazione!
    Altro aspetto è “ il contesto sociale”. Essendo lacerato, diviso, quello attuale, inibisce l’armonia che è ispiratrice dell’artista? Si ritorna al punto di prima... e cioè alla fusione di “ libertà armonia bellezza semplicità “ che sono valori accomunati, sostrato della intuizione estetica.
    Scusate se ho commentato abusando di termini tecnici della filosofia.

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    1. Caro Rosario, penso anch'io che Hegel costituisca un passaggio fondamentale. Lo sottolinea con forza Massimo Cacciari in un'intensa lezione sull'arte contemporanea tenuta al festival di filosofia 2017. Il link è questo: http://www.festivalfilosofia.it/2018/index.php?mod=c_video&id=261.
      Grazie del tuo importante contributo. Un abbraccio.

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  2. E’ vero, tanta arte contemporanea risulta decisamente lontana dalla bellezza e da quei canoni che, in passato, ad essa si sono riferiti. Ed è altrettanto vero che l’arte, come “più acuto sensore” del clima di un’epoca, oggi testimonia disagio, angoscia, disgregazione e perdita di un centro. Anche a me pare che tale processo sia iniziato quando, allontanandosi dall’immediatezza sensoriale del passato l’arte si è fatta concetto e gesto.
    Mi chiedo però se oggi, dalla testimonianza spesso cruda di tale disarmonia, non emerga implicito anche un grido, un bisogno sofferto di tornare a cogliere una bellezza capace di nutrire l’anima. Un bisogno che si esprime paradossalmente proprio al contrario, con manifestazioni estreme e provocatorie come – per esempio - le performances della Abramovich. Forse un modo certo discutibile per scuotere un pubblico altrimenti indifferente?
    Grazie dell’attenzione, cara Rossana, e un saluto!!!

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    1. Sarebbe già molto se ci fosse questa nostalgia, questo "bisogno sofferto" di armonia, se si potesse cogliere l'invocazione della bellezza all'interno della disgregazione.
      Sarebbe già la consapevolezza di una mancanza.
      Un abbraccio.

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  3. In ogni tempo una critica all'arte del momento. Molti artisti e movimenti artistici del passato sono stati criticati ed ora le loro mostre sono sold out, pensiamo ad esempio a Caravaggio o agli Impressionisti.
    Ritengo che non si debba sempre ricercare la bellezza nell'opera d'arte, anche se ci rassicura e rasserena. La produzione artistica per fortuna non si limita al "bello" ma va oltre permettendo a ciascun artista di esprimersi liberamente, anche con il rischio di essere criticato.

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    1. Grazie Paola per il suo commento. Ho visto il suo blog, dedicato proprio all'arte contemporanea, con una ricchissima presentazione di esperienze artistiche. Mi propongo di visitarlo con calma. Buona serata.

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  4. Non può esserci arte senza bellezza, sono in totale antitesi. Senza bellezza ci può essere celebrazione narcisistica, autoincensamento, egocentrico,ma nulla di più

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  5. Simonetta Giovannini4 dicembre 2018 alle ore 10:00

    Il discorso è scivoloso. Certo, molta arte contemporanea è virtuosistico esercizio retorico. C'è anche il compiacimento perverso della distruzione, della deformazione, della dissacrazione fine a se stessa. Molto cinismo.
    Riconosciuto questo, va altresì detto che la bellezza di un'opera d'arte non sta nel soggetto ma nella modalità, nella forza espressiva, nella profondità di visione con cui il soggetto è interpretato, rappresentato.
    L'arte non è necessariamente pacificante, riconciliante armonia. Esiste (è sempre esistita) un'arte di rottura, quell'arte che ha il compito di reintrodurre un elemento caotico capace di rompere canoni consolidati e armonie consunte. Del resto ne parla anche Mancuso. L'arte contemporanea rispecchia la perdita del senso, il degrado e la crisi di civiltà del nostro mondo. Lo fa spesso (non sempre) in un modo compiaciuto e vuoto d'anima. Ma la bellezza non è morta e l'anima tornerà a farla fiorire.

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