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sabato 15 febbraio 2020

Non esiste gioco senza perdita, Massimo Recalcati.

Senza la possibilità della perdita non si dà la possibilità della vita davvero vissuta.
Post di Rossana Rolando.

Massimo Recalcati,  
Le nuove melanconie
Leggo il capitolo di Recalcati Non esiste gioco senza perdita, contenuto nel suo ultimo libro Le nuove melanconie¹ sotto l’influsso di una doppia suggestione: da una parte, come insegnante, l’esperienza di alunni che vorrebbero ritirarsi dalla scuola, non per fare qualcos’altro, ma per rimanere a casa, spaventati dalla fatica della vita scolastica e dal complicato intreccio delle relazioni; dall’altra parte, come semplice osservatrice, il fenomeno nato in Giappone e diffusosi altrove - anche in Italia - dei cosiddetti hikikomori², giovani che si chiudono in una stanza e si autoescludono dal mondo, rifugiandosi nella dimensione virtuale.
Naturalmente nessuno è immune dalla tentazione di fuggire l’esistenza, soprattutto quando essa si presenta - per le più svariate ragioni, soggettive ed oggettive - come un peso difficile da portare. Ma quello che può rimanere un retropensiero nella vita adulta, finisce invece per apparire come l’unica strada percorribile in alcune situazioni di fragilità adolescenziale.

Recalcati inizia la sua riflessione con un doppio racconto che mette bene in luce il desiderio di fuga.
Il primo. Un paziente porta questo sogno in analisi: è al tavolo da poker insieme ad altri giocatori. Ogni volta che riceve le carte per iniziare una nuova partita si trova tra le mani quattro assi che lo rendono immancabilmente vincitore. Dopo diversi giri di carte dove questo schema si ripete inesorabile, gli altri giocatori, stanchi di perdere, abbandonano il tavolo da gioco lasciandolo solo. Nessuno vuole più continuare a giocare con lui. Il sogno termina con una sensazione di disperata impotenza che invade il paziente.
Massimo Recalcati, 
L'uomo senza inconscio
Il secondo. Un altro paziente condivide pienamente questo fantasma: egli sogna di essere pronto per entrare in campo con la propria squadra di calcio, quando l’allenatore, improvvisamente e senza alcuna ragione apparente, gli dice di mettersi in panchina perché non ha più un ruolo di titolare nella sua squadra. Dovrà così osservare la partita senza poter giocare. Anche in questo caso il sogno del gioco si trasforma in un sogno di esclusione dal gioco. Mentre però il suo allenatore gli comunica la decisione di lasciarlo in panchina, gli rifila segretamente un sacco che contiene una somma di denaro che nel racconto del sogno il paziente definisce “smisurata”.³

In entrambi i sogni il gioco è metafora della vita. Nel primo, la vittoria reiterata – raffigurazione del soggetto che gioca solo se è sicuro di vincere – diventa motivo di abbandono da parte degli altri giocatori, stanchi di perdere. Nel secondo, la cifra “smisurata”, offerta dall’allenatore per lasciare il calciatore in panchina, indica simbolicamente il guadagno che il soggetto ottiene rimanendo estraneo alla partita.
In ambedue i casi  si rimane esclusi dal gioco: o perché non si accetta di perdere, come accade nella partita reale della vita, o perché si pensa che stare fuori dal gioco sia più vantaggioso, rispetto all’eccessivo costo di energie, fisiche e psichiche, messo in conto dal vivere. “Nella prospettiva della nevrosi, è sempre più redditizio evitare il gioco che giocarvi, perché ogni gioco implica sempre la possibilità della perdita”.

Massimo Recalcati, 
La pratica del colloquio clinico
C’è poi un altro aspetto, più sotterraneo, che può indurre a ritirarsi. E’ la consapevolezza di non poter dominare il gioco, di non averlo davvero voluto, di trovarsi lì senza averlo scelto: “Entriamo nel gioco della vita come in una tavola già apparecchiata. Siamo seduti in un posto che l’Altro [destino, Dio, genitori, caso, circostanze…] ci ha assegnato in anticipo sulla nostra possibilità di scelta”.  In questa chiave “il desiderio di evitare il gioco” – necessariamente in perdita, fino “all’appuntamento fatale con la serietà finale della morte” – può indicare la volontà di difendersi dalla vita, di non volerne accettare le condizioni.

Eppure, entro questi limiti imprescindibili, conclude Recalcati, si esercita l’unica possibile libertà di chi sceglie di stare al mondo come “vivente”, facendo diventare suo il gioco che non ha scelto, assumendo il destino che non ha determinato. Perché la vera vittoria del gioco è “l’atto stesso del giocare”, trasformando la passività in attività, restando al tavolo della vita “senza possedere i quattro assi”, rimanendo nel campo dell’esistenza, dopo aver rifiutato ogni “vincita di contrabbando”.

In altri luoghi questo “sì alla vita” viene evocato ricorrendo alla parabola evangelica dei talenti⁷. La richiamo brevemente.
Un uomo, deciso a partire per un viaggio, raduna i suoi servi e affida loro i suoi beni. Il primo, che ha ricevuto cinque talenti, li investe e ne guadagna altri cinque. Il secondo, che ha avuto due talenti, ne ottiene altri due. Il terzo, al quale è stato consegnato un solo talento, va subito a seppellirlo per timore di perderlo. Proprio a quest’ultimo, una volta ritornato il padrone, sarà tolto l’unico talento, perché da esso non ha saputo trarre alcun frutto.

“Non voler perdere nulla significa, infatti, rischiare di perdere tutto”⁸.

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Note.
1. Massimo Recalcati, Le nuove melanconie, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.
2. Cfr. qui.
3.  Massimo Recalcati, Le nuove melanconie, cit., pp. 11-112.
4. Ibidem, p. 112.
5. Ibidem, pp. 119 e 125.
6. Ibidem, pp. 124-125.
7. Cfr. Massimo Recalcati, Contro il sacrificio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, p. 141.
8. Massimo Recalcati, Le nuove melanconie, cit., p. 113.

16 commenti:

  1. Interessantissima anche la figura del genitore (madre o padre che sia) che 'dando tutto' , assicurando una vincita a priori e senza rischi, toglie al figlio la possibilità del gioco, ne mutila la spinta vitale, con lo scopo nemmeno troppo nascosto di tenerlo sotto il proprio controllo...

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  2. Grazie per queste notazioni che colgono nel segno applicando il discorso ai figli "programmati come vincitori". In "Cosa resta del padre" la cosa è detta così: "La grande angoscia dei genitori di oggi è quella legata al principio di prestazione. Lo scacco, l’insuccesso, il fallimento dei propri figli sono sempre meno tollerati. Di fronte all’ostacolo la famiglia ipermoderna si mobilita, più o meno compattamente, per rimuoverlo senza dare il giusto tempo al figlio di farne esperienza".

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  3. Fa pensare, come genitore e come insegnante. Grazie per lo spunto, a chi l'ha scritto e a chi me l'ha condiviso

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    1. Il suo interesse è stimolo gratificante per chi scrive. Grazie anche a Rosario che condivide con lei i contributi pubblicati in questo blog. Buona domenica.

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  4. Grazie del post e della interessante segnalazione. Trovo anch'io, nella mia esperienza di insegnante, molti ragazzi fragili e spaesati, malinconici appunto.

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    1. Come sempre ci accomuna una sensibilità che è data sì dalla professione, ma anche da un modo di guardare l’universo giovani, attento al lato sofferente e melanconico. Un caro saluto.

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  5. Sono tanti gli spunti, alcune situazioni meriterebbero riflessioni profonde: perché tanti giovani hanno “desiderio di fuga”, “vorrebbero ritirarsi dalla scuola”, “si autoescludono dal mondo” ecc…? Sono interrogativi che come genitore e cittadino di questo paese mi pongo, sono il mio cruccio quotidiano e di fronte a tali interrogativi mi sento impotente. Quello che mi dispiace è quando sento giudizi di condanna o di analisi affrettate e superficiali nei confronti dei giovani, (con quale diritto poi giudicarli?).
    La nostra società è in declino demografico, i matrimoni diminuiscono, il lavoro dignitoso manca, l’ingiustizia (impunità di chi delinque, di chi sfrutta il lavoro altrui, … ) dilaga, così come i privilegi di chi è ricco e diventa sempre più ricco aumentando così il divario sociale, ecc…
    Con una società di questo tipo non si può, a mio pare, dare la colpa ai giovani se non vogliono mettere al mondo figli o sposarsi, perché, magari, non si pensa che la maggior parte potrebbero essere degli eterni precari, degli sfruttati e come farebbero a costruirsi una famiglia se magari ne avessero voglia? Si da la colpa ai giovani che sono dei fannulloni, che non hanno voglia di studiare, che mettono scarso impegno; mi domando, con una società come la nostra (con le dovute eccezioni, si intende per fortuna), quale attenzione, quali stimoli, quali riconoscimenti, quale identità, quale speranza, quale futuro per i giovani? La politica non è più il luogo delle decisioni, il luogo delle decisioni è diventato il mercato e l’uomo non è più un fine ma un mezzo. Così la nostra società è diventata una società nichilista, perché “manca lo scopo”, “manca la risposta al perché” (nichilismo definito da Nietzsche) ed i giovani purtroppo questa situazione la vivono ogni giorno, il futuro non è più una promessa ma una minaccia, manca lo scopo, manca la risposta al perché, perché debbo studiare, perché debbo impegnarmi, perché debbo stare al mondo … ? L’alcool, la droga, il dormire, l’isolarsi dal mondo; dovremmo interrogarci se per tanti giovani tutto ciò non sia anche, come dice il prof. Umberto Galimberti, un anestetico per evitare l’angoscia di guardare il futuro che non c’è, per sopportare il fatto che “non contino nulla", "la loro insignificanza sociale”.
    Così facendo la nostra società perdendo i giovani perde il suo stesso futuro! Scusate il pessimismo.
    Raimondo Brunello

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    1. Colgo l’occasione per complimentarmi con lei e con il Blog Persona e Comunità, per l’amore e la cura che ci mettete, perché i post sono una miniera di spunti e di riflessioni; io ci sono arrivato da qualche settimana per caso, quando in occasione di una ricerca in rete mi sono trovato a leggere un suo interessante post del 15/7/2016 “La moglie e la figura del testimone”.
      Concordo con lei, il ruolo dell’insegnante è importantissimo (“per suscitare nei giovani "il desiderio" di entrare nel gioco della vita”), gli insegnanti hanno il potere di motivare o demotivare generazioni di giovani e quando si arriva “all’isolarsi dal mondo” o peggio “al suicidio” di un solo giovane è il fallimento dell’intera società ed in particolare proprio della famiglia e degli insegnanti che non hanno posato il loro “sguardo” sul ragazzo, non hanno capito cosa stesse succedendo. E’ fondamentale anche se estremamente difficile la figura del “testimone” (riprendendo anche detto post del 2016), lo “sguardo” di chi ti vuol bene, di chi ti chiama per nome, di chi ti sa interessare, comunicare con capacità e qualità e non soltanto trasferire il suo sapere di insegnante. Se gli insegnanti potessero studiare un po’ di psicologia dell’età evolutiva per capire meglio i ragazzi, sarebbero aiutati anche a svolgere meglio con passione e consapevolezza il loro difficilissimo ma fondamentale ruolo.
      Grazie, Raimondo Brunello

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  6. Grazie per questa sua lettura del mondo giovanile accorata, appassionata, preoccupata. Le analisi del professor Galimberti sono sempre lucide e aiutano a leggere molti fenomeni giovanili. In particolare la scelta di anestetizzare l'esistenza, in modo da renderla sopportabile, mi pare si adatti a molte esperienze di "perdita totale di sé".
    Come insegnante, voglio credere che ci siano però ancora margini per suscitare nei giovani "il desiderio" di entrare nel gioco della vita e di giocarsi, anche nei limiti di una società malata, come lei sottolinea.
    In questo senso propongo qui un breve video di Recalcati. Grazie e buona domenica.
    [video]https://www.youtube.com/watch?v=FQMC1KGRUEE[/video]

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  7. Da sottoscrivere parola per parola l'intervento di Recalcati nel video, sia per quanto riguarda l'attuale posizione degli insegnanti nel tritacarne, ma soprattutto per il fatto che la vita è fatta di incontri che possono cambiarci.
    Se guardo indietro alla mia esperienza di allieva, devo dire che a svegliarmi alla vita sono stati sì gli autori studiati a scuola, ma - qui sta l'importante! - filtrati dalla PASSIONE dei miei insegnanti e dai valori che ho visto incarnati nella loro professionalità, un esempio che vale più di tante parole. E' questo mettersi in gioco che passa da persona a persona, soprattutto se dall'altra parte c'è una sete e una recettività.
    Il problema di tanti abbandoni scolastici è anche il fatto che questa ricettività oggi non c'è più e va risvegliata. Dietro tanti atteggiamenti di rifiuto da parte dei giovani, c'è talora l'errata convinzione di poter bastare a se stessi, ma soprattutto la paura di mettersi in gioco e l'essere totalmente sguarniti di fronte alle sconfitte e alle inevitabili delusioni della vita. Una grossa responsabilità è della generazione precedente e discorso sarebbe lungo, ma mi fermo qui.
    Grazie di questo articolo, cara Rossana, e degli spunti di riflessione sempre preziosi.
    Buona domenica!

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    1. La tua sottolineatura è fondamentale: la vita è fatta di incontri e l'apprendimento passa attraverso la fascinazione di contenuti mediati dagli insegnanti (la natura erotica dell'apprendimento, la capacità di comunicare emotivamente con l'alunno, la formazione e non semplicemente l'istruzione...). Un compito immenso.
      Penso che la "salvezza" della scuola e di tanti giovani passi per questa strada, come dice Galimberti - nel suo modo pungente e penetrante - in questo video:
      [video]https://www.youtube.com/watch?v=XQcstdpi3WY[/video]

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    2. Sono d’accordo con lei prof.ssa Rossana Rolando, “la vita è fatta di incontri e l'apprendimento passa attraverso la fascinazione di contenuti mediati dagli insegnanti”; per me, ha colto nel segno e come genitore non posso che ringraziare lei e tutti quegli insegnanti di buona volontà che ogni giorno, nonostante mille difficoltà, hanno a cuore tutti i ragazzi e cercano di fare del loro meglio.
      Grazie, Raimondo Brunello

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  8. Arrivando con calma ho potuto leggere commenti appassionati, comunque partecipi. Non poteva essere diversamente, visto il tema toccato e la grazia usata nel descriverlo. Non credo che in nessuno di noi sia venuto in mente di “ mettere sul banco d’accusa “ i giovani, che, invece, sono seriamente i soggetti colpiti, con grave responsabilità della politica, del mercato, della “scuola di maniera “. Eppure bisogna “ scommettere “ ( Pascal) !
    Dal Vangelo di oggi prendo spunto per seguire il filo di “ quel di più “ rispetto alla Legge, che è l’Amore nella Vita, la Vita perché è Amore. ( E considero anche quante volte noi umani, con i nostri regolamenti imitiamo : ad esempio, il di più in economia non è “ valore aggiunto “ ?) Grazie Rossana!🎈

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  9. Molto bello, caro Rosario, questo accostamento tra Legge e Vita, tra la rigidità del dovere e la mobile fluidità dell'Amore per la Vita. Ricollegandomi a quanto dicevo con Annamaria mi verrebbe da accostare la prima (legge) alla semplice trasmissione di contenuti, all'istruzione; la seconda (amore per la vita) alla formazione, alla comunicazione empatica che trasforma freddi contenuti in sentimenti e nutrimenti per la psiche.

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  10. @Cara Rossana, mi segnerò anche questo testo di Recalcati. Grazie per i tuoi scritti, fucina di utili riflessioni. Buona giornata e saluti cordiali.

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  11. Ciao Maria, grazie a te per l'apprezzamento molto gradito. Un abbraccio e buon fine settimana.

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