Post di Rosario Grillo.
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Derrida, Salvo il nome
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“La difficoltà del ‘senza’ si propaga in ciò che si chiama ancora la politica, la morale o il diritto, i quali sono tanto minacciati che promessi attraverso l’apofasi” (Derrida).
💥 Testimonio.
Una parola che, salvata dalla massificazione, attira la nostra attenzione, a partire soprattutto dal suo codice giuridico. Anche al diritto ne viene - bisogna riconoscerlo - un rispetto, oggi molto compromesso, integrandolo in quella ontologia con cui gli antichi romani lo avevano inteso.
Allora al testimone bisogna associare - vincolo consustanziale - il “moto d’essere”, comprensivo di essenza e di azione, che dice la verità, in qualche modo la comunica; e, nell’atto di comunicare, la sancisce: la fa essere (i latini direbbero: ad-firmat). (1) (2)
Mi sono imbattuto in un testo di una trilogia dedicata da Derrida ad una sorta di Saggio sul nome: Salvo il nome. Nell’opera Derrida prende ad oggetto la “apofasi” riconducendola alle movenze della teologia negativa, cioè dell’assenza di Dio o del dire Dio in via negativa. In questa forma l’apofasi è “una dichiarazione senza (3)” e potremmo subito concludere: senza soggetto e senza oggetto.
Rarefazione; in cui si confrontano (e si confondono) l’ “io sono” di Dio (che in altro modo diciamo: rivelazione) e il complementare “dire di Dio, su Dio” (teologia).
Derrida ci (si) spinge in un luogo-non luogo (magari sarebbe utile servirsi della metafora cusaniana del centro/circonferenza) mentre cuce la tela imbastita con versetti tolti dalla mistica (Meister Eickhart, maestro di Angelus Silesius) rivisitanti le Confessioni agostiniane.
Spazio del vuoto, deserto in qualità di indeterminato, estrema “impossibilità del più che impossibile”, codice della decostruzione (4), cominciamento del linguaggio sotto forma di pre-condizione che si contiene necessariamente in se stesso per salvarsi da ogni esaurimento/distorsione, il formale, per antonomasia. (5)