🖊Post di Rosario Grillo.
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Edmond Jabès,
Il libro dell'ospitalità |
Edmond Jabès porta con sé il peso
dell'origine.
Ebreo, in una famiglia radicata nella
borghesia cairota, sente il lievito della sperimentazione delle avanguardie
francesi (surrealismo e strutturalismo) all'atto dell'esilio in Francia.
Il chiodo, conficcato, rimane.
E lo spinge ad imbastire una fusione -
lavoro di alambicco! - dalla quale fuoriesce una scrittura scabra, di scatto,
fulminante quanto essenziale nella partitura.
Possiamo dire che Jabès rispecchia nelle
“corde” più intime della sua scrittura lo iato, il diaframma, tra il Libro e il
lettore, tra il Creatore e le creature, tra là Torah e i suoi interpreti.
In questa misura è un campione
dell'ermeneutica.
Così la lettura della sua opera risulta
nello stesso tempo appagante e sfuggente. Lascia l'amaro di un quid
incomprensibile.
Direi che ciò è voluto: per un sottile ed
enigmatico gioco, dove lo spazio pesa, dove il vuoto crea, dove il nero diviene
entro la cornice dell’e-statico bianco.
Al suo interno: la dimensione, direi la funzione, del
deserto, evocato da Jabès: purificare e rivelare.
“Luogo davvero di ogni presenza - diceva -
è il deserto”.
“Né passato né futuro
Dove sono
Il passato mi ha sottratto l'avvenire
Il nomade disse: tu sei nella tua memoria, la quale non è affatto legata
passato, come si potrebbe credere, ma è attaccata al presente
Al presente ch’essa crea.
Non ricordo nulla - gli risposi - Dunque non esisto
Tu esisti nel Nulla, disse allora il nomade.”
(Libro dell’ospitalità, pp. 102/103).
Pensiero nomade, il suo.