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martedì 2 agosto 2022

L'eternità presente. Biagio Marin.

L'eternità presente/ nel mio sangue, la godo,/ e sempre in alto modo,/ anche se son morente (Biagio Marin).

 Post e fotografie di Rossana Rolando.

Grado, casa natia di Biagio Marin
Nel nostro viaggio a Trieste – città dal grande fascino mitteleuropeo, cui dedicheremo presto un post – abbiamo raggiunto, via mare, Grado, il paese lagunare di Biagio Marin, poeta oggi universalmente riconosciuto, di cui la critica letteraria e filosofica si è largamente occupata.¹
Nato in territorio asburgico e poi coinvolto nel processo di unificazione italiana, vive una lunga esistenza, tra il 1891 e il 1985, non priva di grandi dolori, come la morte del figlio Falco, nel corso della Seconda guerra mondiale, e la scomparsa di altri affetti cari (la moglie, il nipote Guido). 
Sulla parete della sua casa natia si legge la scritta di alcuni versi che rimandano ad affanni antichi e a lacerazioni ricomposte nel lavorio dell’interiorità:

Mar queto mar calmo/ no’ vogie no’ brame/ respiro de salmo/ tra dossi e tra lame.

[Mar queto, mare calmo/ non voglie non brame/ respiro di salmo/ tra dossi e tra lame].²

Mare di fronte a Grado, dal battello

Nelle immagini evocate si affaccia un protagonista essenziale delle poesie di Biagio Marin: il “mar grando”, simbolo dell’eterno e dell’infinito, matrice ininterrotta di nuove generazioni e, nello stesso tempo, aldilà cui approda la vita che salpa e s’invola:

Mola i to rimi// e làssete portȃ/ da la corente sita,/ al de là de la vita/ ne la divinità.

[Molla i tuoi remi// e lasciati portare/ dalla corrente zitta/ al di là della vita/ nella divinità.]³

Pier Paolo Pasolini, che per primo ha fatto conoscere Biagio Marin, insiste sul linguaggio scabro - petrarchesco - del poeta, elaborato per sottrazione, selezionando termini riferiti a pochi oggetti e colori, capaci però di caricarsi simbolicamente di rimandi molteplici e ulteriori. La riduzione fatica - relativa al numero ristretto delle parole - è funzionale ad una esplosione enfatica, riguardante la ricchezza semantica dei termini utilizzati. In questo senso il paesaggio di Grado – orizzonte in cui si sviluppa l’itinerario poetico dell’autore - viene a costituire il microcosmo rappresentativo dell’intero mondo. Si comprende perciò come la scelta di scrivere in dialetto gradese - inventato e reinventato continuamente – parta da un presupposto non popolare, ma aristocratico, nutrendosi dell’esigenza di accedere ad una lingua altra, della lontananza, dell’origine, della luce.

Grado, casa con fiori

Su questo aspetto si sofferma Massimo Cacciari, che di Biagio Marin ama l’opera, proprio per l’impostazione filosofico religiosa, relativa al rapporto tra il tempo e l’eterno. Per il poeta gradese, l’eternità non sta altrove, in una dimensione irraggiungibile, ma traluce continuamente nelle “maschere” del reale, creando attimi di perfetta gioia: eterni perché pieni, non mancanti di nulla, in se stessi compiuti e quindi sottratti per sempre alla rovina del tempo. 

Il continuo richiamo ad un altrove, ad una lontanía, non impoverisce dunque il tempo della vita - come si potrebbe pensare -, ma lo arricchisce e lo impreziosisce. Si comprende soprattutto nella costante meditatio mortis - intesa come ars moriendi - che invita a cogliere la bellezza fuggitiva dell’attimo e la pienezza dell’istante, come traspare in questi versi:

No’ duro che un momento/ in un canto de luse:/passo co’ ’l vento/ che a perdission conduse.// Un lampo solo,/ ma, santo Dio, co pien!/ L’Eterno in cor me vien/co’ duto ’l mondo in svolo. 

[Non duro che un momento/ in un canto di luce:/ passo con il vento/ che a perdizione conduce.// Un lampo solo,/ ma, santo Dio, come pieno!/ L'Eterno in cuor mi viene/ con tutto il mondo in volo.]

Grado, piccola Venezia, canale interno

Il luogo ontologico originario da cui discende la poesia di Marin si presenta metaforicamente come una luce che penetra il buio, filtrando il tempo di eternità. Come accade, per esempio, nella poesia dedicata alla cattedrale di Grado, Santa Eufemia, la chiesa che abbiamo ammirato, collocata all’ingresso del paese, all’interno di un più vasto complesso monumentale. Qui i temi del silenzio, dell’ombra, del vuoto grande che avvolgono la solitudine divina e potrebbero richiamare la distanza del mondo contemporaneo dal senso religioso (Marin, lettore di Nietzsche!) si ribaltano in fiammelle di luce, amore e bellezza, in continuità con il corteo dell’umanità orante di ogni tempo.

Me amo la to ciesa grande, Elia, /pel so silensio e per la so frescura;/ là drento quele mura/ colone ed archi dilata l’umbría.// Me piase intrȃ cȏ Elo xe più solo,/ e Lo respiro in quel so svodo grando/ e verso d’Elo mando/el cuor in svolo.// Lo vardo fermo, drento, ꞌl cuor me bate,/ e ꞌi digo el ben che ꞌi vogio/ e son fiamela d’ogio/ ne l’ombra granda de le tre navate.// Picola luse xe la mia/ a iluminȃ quel’onbra profumagia/ de tanta umanità passagia/ comò una dolse litania.

[Amo la tua chiesa grande, Elia,/ pel suo silenzio e per la sua frescura;/ là dentro quelle mura/ colonne ed archi dilatano l'ombra.// Mi piace entrare quando Lui è più solo,/ e Lo respiro in quel suo vuoto grande,/ e verso di Lui mando/ il mio cuore in volo.// Lo guardo fermo; dentro, il cuore mi batte, / e Gli dico il bene che Gli voglio/ e sono fiammella d'olio/ nell'ombra grande delle tre navate.// Piccola luce è la mia/ per illuminare quell'ombra profumata/ di tanta umanità passata/ come una lunga dolce litania.]⁷ 

Grado, Campanile di Sant'Eufemia

Note.
1. Da Carlo Bo a Pier Paolo Pasolini, da Andrea Zanzotto a Claudio Magris, da Pier Vincenzo Mengaldo a Edda Serra fino a Massimo Cacciari... secondo l'ordine della antologia della critica contenuta in Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris e Edda Serra, Garzanti, Milano 2017. Claudio Magris è anche autore del testo Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio Marin, Garzanti, Milano 2019.
2. Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris e Edda Serra, Garzanti, Milano 2017, p. 83 (da Dopo la longa istàe, 1965).  Cfr. anche ibidem, p. 226.
3. Ibidem, p. 308 (da A sol càlao, 1974). Cfr. anche pp. 51, 251,430.
4. Ibidem, Antologia della critica, Pier Paolo Pasolini, pp. 464-470.
5. Ibidem, Antologia della critica, Massimo Cacciari, pp. 498-505. Cfr. ibidem, pp. 249, 340.
6. Ibidem, p. 106. Cfr. anche pp. 28 e 294.
7. Ibidem, p. 176 (da El picolo nío). 

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2 commenti:

  1. Forse un disegno segreto ha voluto che , nel mezzo delle fiamme che hanno reso difficile arrivarci, Grado vi si sia svelata dal mare e nel mezzo di solitudine senza grande folla. Grado è in effetti “ rivelazione “ nell’intimità…e rigetta clamore. Peccato che il grande afflusso turistico la violenti spesso! Il poeta Marin la interpreta “ alla pari”, come autentico essere nativo. Tu, Rossana, hai saputo ascoltare la voce e comunicarla.
    🌹🫂

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  2. Bellissimo, il tuo commento! E' vero, la nostra vacanza - come tu sai - si è svolta proprio nei giorni del terribile incendio sul Carso e questo ci ha indotti a rimanere a Trieste (a visitarla bene, cogliendone l'eleganza, la bellezza, l'ospitalità della gente) e a raggiungere Grado via mare. Concordo pienamente sull'aspetto dell'intimità... sulla Grado di Marin, luogo dell'anima, "piccolo nido e covo di gabbiani", fatto segno di un oltre.

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