Iscriviti ai Feed Aggiungimi su Facebook Seguimi su Twitter Aggiungimi su Google+ Seguici tramite mail

Iscriviti alla nostra newsletter!

giovedì 10 dicembre 2020

Pensare l'estremo.

Sebbene vissuta nell’anonimato, in solitudine, lontano dalla comunità, la morte non è mai ovvia: è un evento unico, irripetibile, è enigma, è mistero.

Post di Rossana Rolando.

Immagini delle illustrazioni di Andrea Calisi (qui il sito instagram).

Andrea Calisi, Poggio delle due torri e dei corvi gracchianti
L’andarsene anonimo di tante persone che muoiono in solitudine, senza un saluto da parte della comunità (soprattutto quando, per diverse ragioni, viene meno la dimensione religiosa del rito) è un altro aspetto che impressiona, in questo tempo di coronavirus. I telegiornali si susseguono con i loro bollettini medici e il resoconto altalenante dei morti. Numeri senza volto. Solo le persone direttamente coinvolte nel dramma di chi è colpito dalla durezza della malattia possono avvertire il brivido lacerante.

La morte viene a noi attraverso gli altri, soprattutto attraverso la perdita di persone care. Eppure essa rimane in se stessa qualcosa di profondamente estraneo, anche quando coinvolge dolorosamente. Vladimir Jankélévitch esemplifica l’esperienza di questa alterità in questi termini: “Ho coscienza della morte e so che morirò - ma non ci credo. Così come tutti gli uomini sanno di dover morire - ma non ci credono”¹. Sul tema Tolstoj ha scritto il suo potentissimo racconto “La morte di Ivan Il'ič”, che inserisco come audiolibro al termine di questo post, nella versione integrale. 

Dunque, quella che noi viviamo non è mai la nostra morte. Essa rimane, per il vivente, un “non luogo”, irrappresentabile, non percepibile. Per questo Epicuro afferma: “quando ci siamo noi la morte non c'è, quando c'è la morte non ci siamo noi”.² Nella sua concezione materialistica - che identifica la morte con la dissoluzione del corpo e dell'anima e quindi con una situazione di totale insensibilità - Epicuro ritiene di aver trovato il farmaco per guarire l’uomo dal timore della morte. Eppure lo sgomento non è venuto meno.

Andrea Calisi, Nei tuoi occhi
Il dato estremo della morte, infatti, non è semplicemente racchiuso nell’istante ultimo, ma è anticipato nella prefigurazione angosciosa di esso. Proprio la possibilità del “non esserci” costituisce il nocciolo dell’angoscia: in essa non si teme questo o quel morire, pur sempre interno al vivere - ogni mutamento implica una negazione - ma la nullificazione totale di sé.

Se in qualche grande spirito (penso a Leopardi) e in qualche momento dell’esistenza l’annientamento può assumere il volto di una benefica liberazione dalle sofferenze del vivere, più spesso esso è avvertito come un non senso, uno scandalo ontologico, nient’affatto naturale per la vita cosciente.

Il magnifico libro di Rosenzweig, La stella della redenzione, si apre con questa affermazione: “Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia”.³ E, potremmo aggiungere, ancor prima della filosofia, la religione, l’arte, la poesia. Nel Simposio platonico lo sforzo creativo di ogni produzione culturale risponde all’insopprimibile desiderio di eternarsi, di vivere oltre il limite ristretto dell’esistenza finita.

Per il resto è un grande esercizio di rimozione caratteristico di ogni tempo. Rimuovere – infatti – significa difendere la psiche da un terrore insopportabile, da un contenuto traumatico che non si può consapevolmente portare.

Andrea Calisi, Una vita normale
Nel nostro tempo la rimozione che accompagna il bollettino quotidiano dei decessi rischia di banalizzare la morte. Lo dicono ampiamente i discorsi, i comportamenti, le questioni che non sono in alcun modo all’altezza della tragicità di chi vive dentro il dolore dell’epidemia. Ma il vuoto elenco numerico può anche provocare l’effetto opposto. Può risvegliare il senso della sproporzione assoluta tra la comunicazione giornaliera dei casi e l’evento singolarissimo della morte, può generare un contrasto che scuote e ridesta al pensare.

In questo senso la lezione paradossale del coronavirus potrebbe essere quella di un richiamo alla serietà, alla maestosità della morte. Sebbene vissuta nell’anonimato, in solitudine, lontano dalla comunità, la morte non è mai ovvia: è un evento unico, irripetibile, è enigma, è mistero.

Hegel nella Fenomenologia dello Spirito ha espressioni vibranti, di straordinaria intensità evocativa: nella lotta per la vita, colui che davvero si è trovato di fronte alla morte “non è stato in ansia per questa o quella cosa o durante questo o quell’istante, bensì per l’intera sua essenza; … ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta”. Di fronte alla morte la coscienza “ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa vi era di fisso ha vacillato”.

Andrea Calisi, Ombre lunghe
Nell’istante ultimo, dice Hegel, non sono in gioco le cose, le sicurezze, le realtà con le quali ciascuno si identifica, ma il solo semplice esserci. Tutto perde importanza, tutto svanisce, tutto si fluidifica, rimane il nudo, ostinato attaccamento alla vita.

La morte finisce così con l’essere, nella Fenomenologia, la testimonianza più alta e drammatica della volontà di vivere.

Ecco, credo che Hegel lo abbia detto in maniera insuperabile.

Note.
1. Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995, p. 55.
2. Epicuro, Lettera e Meneceo.
3. Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 3.
4. Sulla singolarità della morte e sulla distinzione tra segreto e mistero e tra problema e mistero si possono ancora vedere le acute osservazioni di Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, cit., p. 40 ("L'istante mortale va varcato da soli... Ognuno muore la propria morte per sé, per proprio conto") e pp. 43 e 58.
5. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 161-162.
 
❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋
❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋

8 commenti:

  1. Bellissimo, atroce e al tempo stesso monito vigoroso all'aspetto "umano" per eccellenza: moriremo tutti prima o poi. Non possiamo non pensarci proprio per vivere. E si impone il rispetto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, gentile e cara Valeria. "Non possiamo non pensarci": è proprio così.
      In termini biologici la morte ha le sue spiegazioni scientifiche, in termini demografici è un semplice fenomeno statistico... Eppure è anche molto altro: è l'enigma per eccellenza. Nel librettino che ho citato "Pensare la morte?" di Jankélévicht si distingue tra problema e mistero. "Il problema è davanti a me, fuori di me, come un oggetto, trasparente, nella luce piena dell'evidenza senza ombre. Mentre il mistero è qualcosa cui sono dentro. Ora, la morte è al tempo stesso problema e mistero, logica e misteriosa".
      Preservare questa dimensione del mistero mi pare restituisca serietà alla vita.

      Elimina
  2. Bellissima riflessione che mette in evidenza la natura umana e il suo cammino verso la verità.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, credo che l’interrogativo sul senso del vivere – oggi forse meno sentito, soprattutto dalle giovani generazioni – sia anche l’interrogativo sul senso o sul non senso del morire.

      Elimina
  3. Intensissime le parole di Hegel che va davvero alla radice della paura della morte: "non è stato di ansia per questa o quella cosa...bensì per l'intera sua essenza...".
    Ed è vero: ogni sforzo creativo dell'uomo, come ogni gesto artistico, sottintende il desiderio di vivere, di ex-sistere proiettandoci in una dimensione più grande che vinca la morte e ci renda eterni.
    Grazie, cara Rossana, di questa profondissima riflessione filosofica e un abbraccio!

    RispondiElimina
  4. Cara Annamaria, sono contenta che le parole di Hegel siano risultate - anche al tuo "finissimo orecchio" - vere, intense, profondamente umane. La potenza dei classici è sempre sorprendente. Grazie a te, un grande abbraccio.

    RispondiElimina
  5. Racchiuse in un post le più vere, alte e drammatiche verità esistenziali: l'essere increduli sulla propria morte, il vivere ogni giorno la morte degli altri, l'angoscia nel momento della scomparsa dall'esistenza. Grazie per aver ricordato (e riproposto) quel capolavoro che è "La morte di Ivan Il'ič”. Grazie. Un abbraccio.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sempre vicina,cara Maria: siamo in sintonia,come tante altre volte, riguardo alle tematiche, ai toni, ai gusti culturali. Ed è molto appagante l'affinità. Un caro saluto.

      Elimina