Post di Gian Maria Zavattaro.
Rogier van der Weyden, Deposizione, 1435, dettaglio |
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»” (Matteo 27,46)
“Grido che ancora risuona in ogni umanità. … Clamore che risuona nel cuore di ogni cristianità. … Grido come se Dio stesso avesse peccato come noi, come se perfino Dio si fosse disperato, come se anche Dio avesse peccato come noi. E del più grande peccato. Quello di disperare. ... Più dei due ladroni appesi ai suoi lati che non urlavano che un grido di morte umana, perché non conoscevano che una desolazione umana. … Il Giusto solo emise il clamore eterno. Ma perché? Che aveva? Lui solo poteva gridare il clamore sovrumano. Lui solo conobbe allora quella sovrumana desolazione. Così i ladroni non gettarono che un grido che si spense nella notte. E lui gettò il grido che risuonerà sempre, eternamente sempre, il grido che non si spegnerà mai, eternamente. In nessuna notte. In nessuna notte del tempo e dell’eternità” (Ch. Pèguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, AVE, Roma, 1966, p.83 passim).
Il venerdì santo è simbolicamente il giorno della croce ovvero l’icona di tutta la sofferenza che attraversa il mondo, dell’immensa realtà dell’umanità sofferente per diversissime cause: malattie, vecchiaia, avvelenamento dell’ambiente, città opprimenti senza spazi, criminalità, guerre, solitudini, tutte le forme incomprensibili di violenza miseria oppressione sfruttamento ed impotenza, estenuanti lutti familiari nella crudeltà della morte in solitudine dei propri cari e non ultima la propria angoscia della morte e tanto altro ancora.
Rogier van der Weyden, Deposizione, 1435, dettaglio |
Parlare del dolore non è facile, richiede pudore, non si presta a nessuna retorica, nessuna ipocrisia. Quasi sempre il silenzio è l’atteggiamento più autentico che possiamo adottare di fronte al dolore altrui e al nostro.
“Cari amici, non voglio davvero dirvi niente, perché il dolore è così grande che tratteggiarlo con la parola diviene insopportabile. Il dolore non ha volto, non ha un nome certo, non serve a niente e, tuttavia, voi vedrete che il dolore è più tangibile dei volti, è più sicuro degli amici, è più fecondo dei nostri lavori. Miei piccoli fratelli feriti, sapete che io credo che Olivier è vivo, più vivo che mai. Poco importa che voi lo crediate o no, o piuttosto poco importa che voi lo diciate o non lo diciate a voi stessi, con parole chiare, che lo crediate. Lasciategli aperta non soltanto la parola del ricordo, ma anche quella della presenza e della speranza. Riservate nel vostro cuore un rifugio, un posto caldo, per Olivier; e così lo ritroverete con parole che non avrebbe mai dette, di cui né io né voi sapremo completamente il senso. Cari amici, piangete pure senza trattenervi, noi vi siamo vicini” (1). Così Mounier agli amici.
Quante domande affiorano, quanti interrogativi! Come sono conciliabili con Dio la massa smisurata di sofferenze accumulatosi fin dalle origini della vita, tutte le sofferenze legate alla condizione umana, le sofferenze intollerabili di un bimbo innocente? (2) C’è un’alternativa all’accettazione passiva del dolore? Che senso ha il dolore? Come sondarne il perché? Non reclama forse, in quanto esperienza umana che tutti abbraccia, di ricevere-offrire comprensione e consolazione? Non è forse disumana l’indifferenza che ci rende insensibili alle sofferenze altrui?
Rogier van der Weyden, Deposizione, 1435, dettaglio |
Può impoverirci, inasprirci, disperarci, avvitarci su noi stessi, chiuderci nella ribellione senza sbocco.
Può invece essere cammino di reciproca umanizzazione, alla luce della speranza: cammino di con-divisione com-passione com-prensione con-solazione con-forto.
E il cristiano? Ogni tanto mia moglie ama ricordarmi quanto scriveva Italo Mancini: “Amici, l’uomo è l’eterno mendicante di un senso al suo dolore e alla sua morte. Talvolta sento di poter essere cristiano, solo per la risposta che il messaggio di Cristo dà al senso della morte e del dolore, inspiegabili o non pensati altrove” (3).
Un altro filosofo, Roberto Mancini, ci suggerisce che a un certo punto della vita (penso, per me, a questa quaresima segnata dal covid) occorre aprire francamente il confronto con il dolore e la morte, eventi personali che impegnano ognuno di noi, ciascuno in modo unico. E’ invito a decidere le nostre priorità nella vita, a ridurre la nostra storia all’essenziale, a lasciarci alle spalle le cose futili i rancori le ostilità gli egoismi, ad avere cura di ogni persona, a praticare sul serio le virtù teologali, a prepararci infine ad un modo degno di morire quando giungerà l’ultima notte (4).
Analogamente H. Gadamer ci avverte: “Ciò che l'uomo deve apprendere attraverso la sofferenza non è una nozione qualunque, è l'intendimento giudizioso dei limiti dell'uomo, è la comprensione dell'insopprimibilità della sua distanza dal divino. E' in definitiva una conoscenza religiosa...” (5).
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La Passione e la Resurrezione sono la scoperta della nostra filialità e della paternità di Dio, vero padre che non abbandona mai nessuno e ti viene a prendere quando sei perso in un pericolo mortale (7).
E’ nel quotidiano, soprattutto in situazioni apparentemente senza uscita, che la speranza dispiega al meglio il suo dinamismo. Chi tra di noi un giorno della sua vita non ha vissuto “situazioni limite”? Quelle in cui ci sentiamo stanchi della vita, di noi stessi e del mondo; quelle che ci fanno perdere il gusto dell’esistenza e ci fanno dire “ne ho abbastanza”. Genere di prove che giunge ad ogni età. Anzi la tentazione della disperazione più insidiosa e micidiale - scrive Latourelle - è alla sera della vita quando uomini e donne che hanno dedicato tutta l’esistenza a Cristo e agli altri si trovano di fronte all’insorgere da ogni lato di avversità d’ogni genere (comprese le incomprensioni delle persone più care) e vivono la tentazione-percezione di un fallimento relativo a quanto hanno dato ed avevano da dare. Allora si vorrebbe gridare “Basta!” E’ a questo momento - continua Latourelle - che sorge la speranza, per grazia, per dono. Prima bisogna smettere di discutere con Dio e riconoscersi ignoranti e poveri di tutto: la conversione alla speranza passa attraverso la confessione senza equivoci della nostra insufficienza. Allora Dio può manifestare la sua potenza e supplire alle nostre forze. Lo spogliamento, conosciuto e riconosciuto, diviene l’atto supremo dell’autentica speranza, l’ultima povertà davanti al dono di Dio. E’ - precisa Latourelle - la speranza adulta di coloro che nella depressione o nell’esaltazione, nella luce o nel grigiore, sempre più vedono Dio e l’uomo in Gesù Cristo; sanno che devono sperimentare la morte e la resurrezione di Cristo, affidandosi a Dio indefettibilmente fedele; si avvicinano alla morte con serenità, soglia della casa del Padre, loro estremo atto di speranza. (8).
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Sul finire del ‘38 i coniugi Mounier sono toccati nel vivo della loro carne quando la piccola Francoise, la figlia primogenita di 7 mesi, si ammala di encefalite progressiva. Due anni di incertezza e tormento, poi la resa: Francoise vivrà una misteriosa notte dello spirito.
Mistero doloroso che li rende presenti alle sofferenze del mondo: “questo piccolo bambino immolato giorno dopo giorno era forse veramente la nostra presenza all’orrore del tempo”. “Si arriva allo strazio, allo smarrimento, all’urlo interiore”. Ma l’amore della loro bambina “si trasforma dolcemente in offerta, in una tenerezza che la oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma con lei”. “L’amore umano insegna molte cose riguardo alle vie dell’amore di Dio”.
Mistero doloroso che si radica in un più grande mistero che lo illumina: la Passione di Cristo, mistero d’amore che continua attraverso il tempo e dona la capacità di comprendere e di lenire il dolore altrui. “Come è vero che la sofferenza ci apre le vie di Dio. Malgrado l’irreparabile, questi giorni vanno annoverati tra i più ricchi: prima li respingevamo, dopo non vorremmo non averli vissuti”.
Mistero doloroso per cui “le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza. La sua grandezza sta nella accettazione. Non ci resta altro che amare e amare intensamente quelli che Egli spezza per amore”. (9)
Infine l’appassionato grido di Pèguy, inenarrabile gioia della Pasqua e Resurrezione: “Gesù ha vinto la morte, Gesù è risuscitato, Gesù ha trionfato sulla morte” (10). E’ la plenitudine del cristianesimo: abbandonarsi nelle mani del Dio vivente che colma il mistero, prende su di sé, anziché spiegarla, la sofferenza più insensata, e perciò atroce, e fa ritrovare quel che pareva perduto.
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Note.
«Se la sofferenza vi ha resi cattivi, l’avete sprecata». (Ida Bauer - 1882-1945)
RispondiEliminase non leggessi la frase di Bauer, l'avrei scritta io. grazie
EliminaE’ l’ambivalenza della sofferenza, come peraltro di ogni vicissitudine umana, regredire ed incattivirsi oppure aprirsi alla speranza e alla com-passione. Dipende da molti fattori estrinseci incontrollati o incontrollabili, ma l’ultima decisione è affidata alla nostra libertà, per quel che siamo e vogliamo essere.
EliminaIl post è un riuscito intreccio di aspetti fenomenologici teologici e filosofici su tema del Dolore.
RispondiEliminaIl succo si trova nella sua significanza escatologica . Solo in questo caso si accompagna a Speranza, che potremmo definire: “ anima” del dolore.
Tutto ha rilevanza nella struttura del post : la sapiente argomentazione, la crescita per gradi, l’esposizione iconica che Rossana ha fatto corrispondere a “ stazioni “ di una via crucis.
Con i complimenti un doppio super abbraccio 🫂 🤗🎆
Caro Rosario, “la significanza escatologia della speranza è veramente il succo… Grazie e ricambiamo il doppio super abbraccio.
Eliminaestupendo
RispondiEliminaGrazie, cortese Horacio.
EliminaA mio parere, il dolore vero, quello profondo, è il sentimento più incisivo e pervasivo che esista. Ne consegue che il dolore è un'esperienza troppo importante perché possa andare sprecata ed è per questo che ho coniato un'espressione che, a tutta prima, può sembrare strana: il dolore come "risorsa"
RispondiEliminaEsattamente come l’hanno vissuto i coniugi Mounier e come anch’io vorrei viverla. Grazie.
EliminaCome vorrei essere in grado di tradurre in parole, scritti, la mia esperienza del dolore, della sofferenza. Posso solo dire che, la sofferenza non mi ha incattivita, più la vita mi pone di fronte a situazioni molto difficili e pesanti e più io cerco di trovare la bontà che risiede nell'animo del prossimo che mi sta procurando dolore. Tutto questo con enormi difficoltà e con risultati che non sta a me giudicare. Ma una cosa è certa la SPERANZA non muore mai.
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