David Maria Turoldo racconta - in modo toccante - il suo rapporto con la morte: quella propria (quando ormai è già gravemente malato) e quella dei suoi genitori.
🖊Post di Gian Maria Zavattaro.Link al precedente post su Padre Turoldo.
Padre Turoldo, Canti ultimi |
In continuità ed a conclusione del precedente post
si propongono tre passi de “LO SCANDALO DELLA SPERANZA colloquio intimo tra N.
Fabbretti e D. M. Turoldo”: nei primi due p.Turoldo ci invita a
confrontarci insieme sulla morte, nel terzo a sperare tutti insieme…
🌟1. D. È stato facile al
poeta Turoldo, cantare la santità della morte per i nuovi martiri come Romero,
e per tutti quelli ignoti e senza sepoltura o aureola? Un tema come il dolore e
la morte non ha finito per costituire un rischio di retorica, un rischio di “edificante”
e di “già detto”, anche per te?
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💥R. Vedi, bisognerebbe cominciare
dall’Eucarestia. La rappresentazione sacra che io ho realizzato durante il
congresso eucaristico di Milano, alla presenza del cardinal Martini, con la
chiesa piena di San Carlo, porta il titolo: La morte ha paura, … ha paura
dell’Eucarestia. Noi abbiamo un falso concetto di morte. Per carità! Non
facciamo della retorica, non facciamo della facile apologetica, io so benissimo
che la morte è uno strappo, che la morte è un dramma quando non è anche una
tragedia. Ma io tuttavia vengo dopo la risurrezione di Cristo, vengo dopo
l’Orto degli ulivi. Ho meditato a lungo questo. La notte del Signore è il
titolo di un ultimo mio poema che fa parte del Grande Male. E il Grande Male
non è la morte, ma l’oltremorte, la paura del Nulla, e cioè il Nulla che noi
adoriamo, il nichilismo che fermenta dentro il nostro stesso essere. Perché
Cristo non è tanto che teme e paventa la morte, quanto teme la tortura,
l’arresto, il ricatto, l’umiliazione, la passione. Tanto è vero che si
preferisce la morte, non la tortura, non l’umiliazione, non il dolore, anche se
tutto è provvidenziale. Ma lasciamo stare, non facciamo della facile retorica,
io so benissimo come sono le cose, e anzi, non è che mi lasci tanto influenzare
dall’encomio della morte. No, io la prendo nella sua realtà di un finir di
morire, di un incontro col Signore, di una vita da risorto, e quindi è
l’incontro col Padre.
Detto questo, io dicevo che è la morte che noi dobbiamo
accettare e sola soluzione è l’accettazione della morte. Perché io sfido
chiunque abbia amato la vita come l’ho amata io, e come continuo ad amarla. E
vorrei quasi dire, ma senza presunzione, che il segreto di questo è che ho
sempre pensato la morte. E la morte mi è familiare. Anzi c’è un altro verso che
dice: “Oh santi! beati voi che avete pranzato con la morte, amante di felici
alcove”… È quasi macabro, quasi barocco! Vi leggo un’altra poesia dove c’è il
riassunto della mia vita di sacerdote, di frate, di vagabondo, però sempre
raccontata nella confidenza ultima coi miei morti. Qui sono nel cimitero del
mio Friuli e sono sulla tomba di mia madre. E voglio dirvi che ricordo in
questa poesia mio padre, mia madre, le sere che si recitava il rosario in casa,
e io ero fanciullo. Si pregava per i vivi e si pregava per i morti. E io, nel
mentre stavo lì sulla tomba di mio padre e di mia ma-dre, sento tutta questa
infanzia che ritorna, questi costumi, e comincio a cantare. E nel canto
terminerò soprattutto con la visione di mia madre in fondo alla chiesa, perché
lei si metteva sempre in fondo, quasi aveva vergogna. E soprattutto se ero io a
celebrare, si abbassava, si abbassava, soprattutto quando predicavo. E di lei
non vedevo neanche la faccia, ma vedevo soltanto la schiena curva, perché si
vergognava, perché arrossiva, perché temeva ... non so quali sentimenti avesse.
E io la vedevo da lassù. Nella meditazione sulla sua tomba ricordo tutto questo
e canto…
Andrea Mantegna, Preghiera nel Getsemani (1459 |
🌟2. D. Ci scandalizzammo un po’
tutti in quegli anni, nel primo momento in cui ti scoprimmo poeta, per due
terribili ed evangelici versi dove dici dei tuoi genitori: “O miei parenti
finalmente siete morti!”. Hai iniziato allora l’amicizia che ci manca di più,
la conversazione – se non addirittura il convito – con la morte come fedeltà
alla vita.
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💥R. Tutti si sono scandalizzati.
Ogni volta che partivo da casa auguravo la buona morte a mia madre, perché era
di una tale miseria che aveva tutto da guadagnare. Come la parabola di Lazzaro
e del ricco epulone: “C’era un uomo ricco – anzi non un uomo, il vangelo non lo
dice, un “dives quidam”, perché il ricco non ha nome e non è neanche un uomo
nel vangelo – c’era un ricco che banchettava tutti i giorni e vestiva di
porpora e bisso… E c’era un povero di nome Lazzaro che attendeva le briciole
che cadevano dalla mensa del ricco e nessuno gliene dava. Solo i cani gli
leccavano le piaghe. Ora avvenne che Lazzaro morì”. Il primo a morire è
Lazzaro, non è il ricco. La morte nella vita del povero è una speranza, perché
se si doveva seguire l’ordine logico della parabola doveva morire prima il
ricco. Invece no, è morto il povero, perché Dio pensa con senso di provvidenza
e di luce anche alla morte.
Ed anche senza disturbare san Paolo, se per lui la
morte era un lucro, per mia madre era una liberazione. Io quando partivo le
auguravo sempre la buona morte e perciò vado sempre nel cimitero a risentirli
vivi. Anzi ho fatto ultimamente una poesia dove dico che tanto sono convinto
della santità di questa gente che mi ha trasmesso la fede, che se dovessi per
ipotesi andare in paradiso dove non c’è mio padre né mia madre, io rinuncio
anche al paradiso. Come dice il vescovo del Sudafrica: “Quale Dio? questo non è
un Dio per me!”. Tant’è vero che tutto il libro porta questo titolo: Udii una
voce. E qual è questa voce? “Audivi vocem
de cielo dicentem: Beati mortui!”. Bisognerebbe avere un altro rapporto con
la morte. Penso che la cosa migliore per superare la morte non è quella di
emarginarla, di esorcizzarla, di chiuderla in cantina, di fingere che non si
muore; tanto più poi che la nostra civiltà è una civiltà che porta la morte nel
proprio ventre. È una civiltà di morte. Non facciamo altro che emarginarla e ci
scoppia tra le mani. La portiamo a ridosso, la beviamo con l’acqua, la
respiriamo con l’aria, la mangiamo coi cibi che mangiamo, è una morte che
incombe. È tutta una civiltà sotto il segno della morte e tu fai di tutto per
non vederne il funerale. Anzi, fra poco anche il pensionato lo affiderai a
qualcuno e non se ne parli più, hai prolungato la vita e non sai che cosa
farne, non sai né affrontare la vita né affrontare la morte. Appunto perché non
hai il coraggio di accettare la morte, per questo usi della vita in quella
maniera che ne usi. Adesso vi leggo subito una strofa soltanto dei Salmi in
morte di mio padre e di mia madre…
Andrea Mantegna, Morte della Vergine (1462) |
🌟3. D. Potresti leggere per
noi uno dei tuoi Canti della speranza?
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💥R. Ecco l’inizio della Ballata della
speranza :
“Tempo del primo avvento
- tempo del secondo avvento - sempre tempo di avvento: - esistenza,
condizione - d’esilio e di rimpianto. - Anche il grano attende -
anche l’albero attende - attendono le pietre - tutta la creazione
attende. - Tempo del concepimento - di un Dio che ha sempre da
nascere. - Questo è il vero lungo inverno del mondo: - Avvento,
tempo del desideri - tempo di nostalgia e ricordi - (paradiso lontano e
impossibile!). - Avvento, tempo di solitudine - e tenerezza e
speranza. - Oh se sperassimo tutti insieme - tutti la stessa
speranza - e intensamente - ferocemente sperassimo sperassimo
- con le pietre - e gli alberi e il grano sotto la neve - e
gridassimo con la carne e il sangue - con gli occhi e le mani e il
sangue; - sperassimo con tutte le viscere - con tutta la mente e il
cuore - Lui solo sperassimo; - oh se sperassimo tutti insieme - con
tutte le cose - sperassimo Lui solamente - desiderio dell’intera
creazione - e sperassimo con tutti i disperati - con tutti i
carcerati - come i minatori quando escono - dalle viscere della
terra, - sperassimo con la forza cieca - del morente che non vuol
morire, - come l’innocente dopo il processo - in attesa della sentenza, -
oppure con il condannato - avanti il plotone di esecuzione - sicuro che i
fucili non spareranno; - se sperassimo come l’amante - che ha
l’amore lontano - e tutti insieme sperassimo, - a un punto
solo - tutta la terra uomini - e ogni essere vivente -
sperasse con noi - e foreste e fiumi e oceani, - la terra fosse un
solo - oceano di speranza - e la speranza avesse una voce sola”.
Andrea Mantegna, Orazione nell'orto (1455). |
Molto interessante.
RispondiEliminaGrazie!
EliminaGrazie... Portaci ancora pagine sublimi...
RispondiEliminaLe parole di D.M. Turoldo sono davvero molto sentite e coinvolgenti. Un saluto.
EliminaMi sembra un gigante, un David, un arrivo dalle profondità del tempo (“tempo” come lo riempie cantando la sua voce) e quindi senza tempo. Dice cose essenziali, la sostanza dolorosa e fremente. Lui magnifico ma la mamma! Questa “povera donna” che rimane in fondo alla chiesa, che si nasconde, che mostra solo la schiena curva soprattutto quando è il figlio che celebra e predica, mi sembra ancor più, umilmente, magnifica.
RispondiEliminaCaro Gianni, pagine stupende quelle che citi ed ancor più suadente e pervasiva la sua voce “fremente”, che mi riporta, ci riporta, ad ognuna delle nostre “magnifiche” madri. Ciao.
EliminaNon si può commentare, si deve “sentire” CUORE!!!
RispondiEliminaMorte è nascita : inseparabili.
SPERANZA : alimento della Vita, che accetta la morte.
Dovrebbe essere il nostro MEMENTO CONTINUO. GRAZIE
Caro Rosario, quanto dovremmo riflettere – come ben sai - sugli spunti che offri. Ma non tarderemo….
EliminaQuesta Ballata della Speranza è commovente e meravigliosa ... Penso di rilanciarla nel mio blog. Grazie. Buona domenica.
RispondiEliminaCome sempre, grazie a Lei, gent.le Maria. Ancora buon mercoledì d’Avvento….
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