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giovedì 30 luglio 2015

Un pensiero mattutino, con V. Mancuso e A. I. Kuindži. Desiderio e speranza.


Ogni uomo è la sua speranza 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Arcobaleno).
“… ogni uomo è la sua speranza,
ogni uomo è definito dall’oggetto del suo sperare.
La vita è paragonabile a un viaggio,
e l’oggetto della speranza è la meta verso la quale si viaggia”
(Vito Mancuso, La vita autentica).

La vita è paragonabile a un viaggio 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Veliero in mare)
“Desidera e spera! Così non perderai tempo”.
Si  può vivere senza desiderio e speranza, senza aspirazioni e progetti? Certo, la nostra società liquida ne è prova lampante. Da tempo in Italia (cfr. Censis, 2008) c’è un  diffuso “calo del desiderio”, reso evidente dalle “manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro”.

... un viaggio nel mare del tempo... 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Onde)
La “cultura dell’adesso e della fretta”, distruggendo la  stessa idea del prima e del dopo, ha rovesciato il tempo, divenuto il qui ed ora di una puntiforme frenesia individuale o sociale, quotidianità di perpetuo e trafelato presente. E mentre passiamo  buona parte del nostro tempo a dire “non ho tempo” - frase paradossale, condensato del nostro comune vissuto -, la nostra vita fugge irreparabilmente senza che ce ne accorgiamo.

... un tempo che scorre ... 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Tramonto sulla spiaggia d'inverno)
Oggi desiderare e sperare è vivere contro corrente, è amare la vita come desiderio di desiderare e speranza che spera. E’ sostituire il “non ho tempo” con “non perdiamo tempo”, è rifiutarsi di perdersi nella fugacità dell’istante, è assumere coscienza di una realtà in attesa del futuro, è trasformare il fluire del tempo nella “durata”, tempo dell’amore, dei doni della gratuità, della libertà, delle relazioni interpersonali e  sociali.

... un tempo che può aprirsi alla speranza ... 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Passo di Darial)
Non è questo il senso profondo ed  il modo concreto di esistenza nel mondo di ognuno di noi, intento a costruire  la sua storia, partecipando  a quella di tutti, nella scansione di passato, presente, futuro?
Ma quali desideri? Quale speranza?  E quale speranza che non deluda e non inganni? Be’, il discorso diventa difficile e complesso…

... quale speranza? ...
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Nuvole)
Per me  bella  è la speranza che mira a trasformare noi e il mondo: quella che vuole tutti fuori da ogni violenza ed oppressione, dalla fame,  dalla miseria che ancora pesano su  due terzi dell’umanità;  che vuole proteggere la natura, pur  liberandosi  dai suoi gravami millenari,  ed essere liberi per la vita dello spirito; che vuole  una promozione sociale in cui  il livello di vita permetta  a tutti cultura e tempo libero; che sogna un’umanizzazione a misura dei popoli e dei continenti.

...la speranza di un tempo riscattato 
dall'oppressione e dal dolore ... 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Arcobaleno)
La speranza, con i desideri che l’accompagnano, attraversa le nostre aspettative, le nostre utopie, i nostri insuccessi, li prende su di sé e li  oltrepassa, non è pienamente se stessa se non essendo speranza che spera oltre la morte.

... la speranza di un oltre ... 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Monte Elbrus nella sera)
Nostra notazione: Archip Ivanovič Kuindži è un pittore russo vissuto tra il 1841 e il 1910. Le sue opere descrivono elementi naturalistici, ma non sono riducibili a semplici descrizioni del paesaggio. Il vero soggetto dei suoi dipinti è, infatti, la luce. Essa filtra e si sprigiona dalla massa scura della materia rappresentata. Perciò la narrazione della natura si umanizza, si spiritualizza e si carica di un valore simbolico.

... come luce che filtra nella notte 
(Archip Ivanovič Kuindži, 
Notturno).
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lunedì 27 luglio 2015

Un pensiero mattutino, con Ionesco e Van Gogh. Hanno dimenticato che si può guardare il cielo.



“Hanno dimenticato che si può guardare il cielo: gli uomini girano intorno in quella loro gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo. Come vivere, come vivere bene, come possedere il mondo, come goderne, come rimpinzarci, dunque come produrre oggetti amabili, strumenti del nostro piacere, come godere continuamente senza tenere conto degli altri, rifiutando loro il godimento senza neanche porsi il problema della loro felicità o infelicità, come industrializzare l’umanità fino alla saturazione. Ecco che cosa si sono proposti gli uomini e quello che si chiama umanesimo. Si tratta dell’abbandono delle cure spirituali o metafisiche. Il problema del nostro destino, della nostra esistenza nell’universo, del valore o della precarietà delle condizioni  esistenziali nelle quali viviamo non è più stato preso in considerazione … Solo l’arte e la filosofia, solo le interrogazioni vive possono tenere sveglia l’umanità  e impedire che l’anima si assopisca, soltanto l’arte e la filosofia possono sviluppare il meglio che c’è in ciascuno di noi” 
(Eugène Ionesco, Il mondo è invivibile).

Il cielo di Van Gogh 
non è vuoto 
(La Notte stellata).
Che cosa significa “guardare” il cielo? Certamente chiedersi quanti di noi oggi, ieri, l’altro ieri hanno osservato la notte stellata o la luna o semplicemente l’alba e il tramonto. E, se non è il cielo,  un paesaggio montano, il mare, una farfalla posata sul fiore o, meglio ancora, il volto dell'altro o, più a fondo, il mondo morale dentro di noi.

La notte stellata di Van Gogh (particolare)
non è una semplice riproduzione naturalistica.
“Guardare”: contemplare, meditare. Le mode e le tendenze correnti oggi  non  incoraggiano queste pratiche così avverse ed estranee al conformismo imperante.

La Notte stellata (particolare) è visione della mente 
e proiezione di sentimenti forti, 
pennellati attraverso i colori.
Secondo G. Dorfles (Conformisti, la morte dell’autenticità, 2° ed. Castelvecchi, 2008), chi più chi meno, tutti ci stiamo  conformando per essere moderni, per non essere isolati od esclusi. Conformisti nei pensieri, nelle azioni, negli interessi, nei gusti, nel comportamento, nel linguaggio, nella vita domestica e in quella pubblica, nei bisogni e nelle aspirazioni. E non ci accorgiamo di perdere noi stessi, la nostra autenticità, la nostra  voce in un contesto, la società liquida, in cui l’umanità è frazionata in tanti comportamenti e linguaggi tutti accolti passivamente. Sono tante le tipologie: dai bambini ai giovani, dagli  adulti agli anziani e persino ai defunti. Ed ognuna mostra come in ogni modo e tempo della vita si obbedisce  a quanto giunge dai media e dall’esterno,  “sino alla saturazione”, senza tener conto degli altri.

La simbologia della Notte stellata (particolare) è ricca: 
il cipresso esprime la tensione verso l'alto, 
sorta di ponte tra terra e cielo.
L’invito di Ionesco è di non rinunciare alle cure spirituali o metafisiche” o al “problema del nostro destino”. Ognuno di noi, se vuole, può ogni giorno riscoprire ciò che non dovrebbe cessare di destare la meraviglia (quella celebrata da Kant), che è all’origine della filosofia, che è nutrimento della poesia e dell’arte, che è fonte delle nostre “vive interrogazioni.

Il paesino avvolto nell'oscurità del sonno indica la tranquillità degli uomini che non si accorgono di quella vivida bellezza della notte, 
attraversata da vortici stellari 
(La Notte stellata, particolare).
Ognuno di noi a suo modo può essere e diventare filosofo-poeta-artista, a suo modo “tenere sveglia l’umanità”, “impedire che l’anima si assopisca”. Per chi si ostina a guardare il cielo sopra “la gabbia del nostro pianeta” e quello tutto interiore dentro di noi c'è sicuramente un rischio: l’inciampo dell’incauto Talete, incurante della frenesia della vita di corsa, distratto dal cielo, costretto a subire le risate di scherno delle servette di turno …

Il video restituisce efficacemente la misura di un cielo vivo e parlante. Si consiglia di mettere in pausa la musica del blog prima di avviarlo.


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giovedì 23 luglio 2015

Favola estiva. La verità è l’intero.


Dicono che ogni favola abbia una sua “morale”,
esplicita od implicita.
Quella esplicita? Non la conosco.
Quella implicita? Se c’è, chi legge la ricavi

Ecco l'efficace immagine 
comparsa qualche giorno fa 
sulla pagina facebook di alcuni amici.
Quid est veritas?  Io non possiedo la verità, anche se riconosco che essa è la condizione della mia esistenza, del suo senso e del suo valore, della mia libertà. Ognuno di noi si sforza di ricercarla dal suo parziale e limitato punto di vista e non dovrebbe pretendere di possederla totalmente. E’ proprio questa ricerca inconclusiva ed inesaustiva ad illuminare l’esistenza, ad aiutarci a superare l’illusione e l’errore, a rivelare la necessità del dialogo, del confronto e del rapporto interpersonale.

Le parti...
In questo tempo di privazione mi capita invece troppo spesso di ascoltare sentenze, proclami, certezze, radicali proposte risolutive (la Grecia, i migranti, il terrorismo, la scuola, …) da parte di tanti politici e guru locali e nazionali: qualcuno sicuramente in buona fede (per quel che vale questa espressione), ma quasi tutti privi della “conditio sine qua non” per parlare con cognizione di causa, solo assicurata dalla faticosa diuturna ricerca di una visione d'insieme, connotativa e denotativa, scevra da pregiudizi e da umori faziosi.

... e la fatica di raggiungere 
una visione d'insieme...
Ci tocca ascoltare troppi parolai, che non possiedono il limite della pacatezza, che rifiutano ogni inquietudine, ogni dubbio e sospetto.

.. poiché tanti tasselli 
ci sfuggono ...
E così mi  è venuta l’idea di riproporre in sintesi una favola: quella dell’elefante, descritta da par suo da Gabriele Mandel (1924 – 2010). Italiano, di discendenza turco-afghana e di madre ebrea, proprio grazie alle sue origini miste dedicò tutta la sua vita a promuovere il dialogo tra le diverse religioni e culture. La favola è contenuta in Saggezza islamica, le novelle dei Sufi, 1992, ed. Paoline.

... come nella favola 
dell'elefante ...
In un paese di questo mondo  nessuno aveva mai visto un elefante e nemmeno sapeva che cosa fosse. Il re di questo paese un giorno ricevette nottetempo da parte dell’imperatore dell’India un dono: un elefante, che subito venne rinchiuso in un padiglione inaccessibile. 

... si narra di un imperatore indiano 
che donò un elefante...
La curiosità della gente era alle stelle, tanto che quattro sudditi decisero di introdursi di soppiatto nel padiglione: per non farsi scoprire, nella più nera oscurità  di una notte senza luna, si misero a palpare ben bene l’animale, fuggendo poi precipitosamente a gambe levate.

... tutti volevano sapere 
come è fatto un elefante...
Agli amici impazienti, il primo, che aveva toccato una zampa, riferì: “è come una colonna, una grande colonna tutta tonda”.

Il primo.
Il  secondo, che aveva tastato la proboscide, replicò: “Niente affatto: è come una grossa corda, molto grossa e molto lunga.”

Il secondo.
Il terzo, che aveva palpato un orecchio dell’elefante, dichiarò invece  che l’animale aveva l’aspetto di un grande  ventaglio.

Il terzo.
Il quarto invece, che aveva ispezionato la coda, assicurò che  assomigliava  alla coda di un maiale, ma molto più alta e ruvida.

Il quarto.
Che cosa mai avevano compreso dell’elefante i quattro saputelli, con le loro misere certezze, prive di una visione sofferta della complessità del mondo e dei drammi che noi tutti viviamo su questa nostra terra?

... nessuno aveva colto 
la verità dell'elefante.
Forse sì, forse no. 
Chi lo sa! Ad ognuno di noi trovarla…

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