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domenica 31 ottobre 2021

Teste ben fatte.

Omaggio a Salvatore Veca. Volti plurali dell'educazione del ventunesimo secolo.
Post di Rossana Rolando
Immagini delle illustrazioni di Angelo Ruta (qui il sito instagram).
 
Angelo Ruta, La lettura
Il titolo del post riprende un saggio di Montaigne, a proposito dell’educazione, laddove egli afferma: “Il vero problema non sono le teste piene, ma le teste ben fatte”.
Lo ritrovo citato da Salvatore Veca, il filosofo gentile - come è stato definito per la sua singolare signorilità - che ci ha appena lasciati lo scorso 7 ottobre. Nel suo ultimo libro, Il mosaico della libertà,¹ scritto in tempi di covid, nel marzo 2020, proprio nel periodo in cui l’insegnamento era costretto al confinamento della didattica a distanza, vi sono alcune pagine appassionate, dedicate alla scuola. 
Il messaggio di Salvatore Veca su come ripensare l’educazione nel ventunesimo secolo, dopo la pandemia, è prezioso in molti sensi: non solo perché le ultime parole di una persona toccano in modo particolare, come fossero un testamento, ma perché in esse si può trovare conforto e cercare riferimento in questo tempo confuso e difficile per l’intera società e in special modo per la scuola.
 
💥 Il modello del sapere utile.
Angelo Ruta, Memoria
Punto di partenza è il tipo di sapere che oggi si persegue prevalentemente nella scuola e nella società, denominato da Veca “sapere utile”, quello che ha una sua evidente “utilità” per agire nel mondo. Si chiarisce subito che non si parla soltanto delle discipline scientifiche, ma di tutti gli ambiti del sapere, quindi anche di quelli relativi alle cose umane (non vi è nessun richiamo alla vecchia dicotomia tra campo umanistico e campo scientifico). In questa concezione del sapere, la risposta alla domanda “a che cosa serve la cultura?” è facile e diretta: “serve alla soluzione di problemi socialmente rilevanti che essa promette di risolvere nel breve termine”². L’implicazione strumentale della cultura, sottesa a questa risposta è chiara: la validità di ciò che viene insegnato dipende dalla sua funzionalità.
 
Ma le conseguenze di questo modello del sapere riguardano anche la sua riduzione a sapere tecnologico, “che verte sui mezzi” essendo i fini “dati, stabili e non discussi”.³ Per esemplificare – aggiungo io –  i mezzi concernono il come insegnare l’italiano o la matematica o una lingua, perché possa essere utile a guadagnare abilità e competenze (parole oggi tanto usate e abusate nella scuola) da spendere poi nella società. 
Rimane escluso da questo approccio riduzionistico – che riconduce il sapere alla sua immediata utilità – ogni domanda relativa ai fini e ogni eventuale utilità dell’inutile, secondo il richiamo del bel libro di Nuccio Ordine.
 
💥 Il modello dei saperi interpretativi.
Angelo Ruta, Giornata mondiale del libro
Il secondo modello che Salvatore Veca presenta è quello di un sapere “che mira a interpretare e a comprendere, a scoprire, a ricostruire e a definire la variabile natura dei fini”, che si interroga su “chi noi siamo”, su “chi noi siamo stati” e “su chi potremo o potremmo essere”.
In questi saperi interpretativi (e la stessa disciplina può essere in momenti diversi utile e interpretativa) i problemi sono relativi ai fini (chi vogliamo essere, quale identità vogliamo assumere) e non ai mezzi da utilizzare per raggiungere il fine prestabilito dell’utile. Solo nel caso dei saperi interpretativi si pone la questione del senso dell’educare persone e si problematizza il ruolo della cultura, non avendo essa esclusivamente il fine dell’utilità sociale. La domanda “a cosa serve la cultura?” troverebbe in questo caso risposte più varie e complesse, non riducibili ad una. Anche perché i fini – che cosa vogliamo essere, cosa possiamo diventare, nell’orizzonte di un’incompletezza costitutiva dell’umano - mutano nel tempo e costringono a ripensare se stessi e il mondo. Proprio questa inquietudine relativa ai fini richiede di non formare “teste piene”, ma di far crescere piuttosto “teste ben fatte”, capaci di porre interrogativi di fondo e di “cogliere l’inaspettato che si apre un varco nelle crepe del presente”. Infatti, nella consapevolezza delle “possibilità alternative” è racchiuso il significato di quel che si chiama “spirito critico”. 
Conclude Veca, su questo punto: “una cultura che non accettasse la raccomandazione dell’inquietudine come habitus sarebbe una cultura più povera. Sono convinto che una tale cultura comporterebbe esperienze di perdita e di dissipazione. Semplicemente non sarebbe una cultura al suo meglio”.
 
💥 Circolarità dei due modelli.
Angelo Ruta, Ritorno a scuola
Le pagine finali di Veca portano ad una inclusione reciproca dei due modelli. Il sapere utile da solo rischia di “addestrare” menti che rispondono in maniera rigida e inadeguata rispetto ad un mondo che cambia continuamente e richiede sempre nuove “competenze”. D’altra parte, il sapere interpretativo, finisce per girare a vuoto se continua a interrogarsi sui fini senza trovare i mezzi per mordere la realtà. Perciò entrambi i tipi di sapere vanno contemperati nell’educare persone che “fioriscano grazie a una visione”. “Visionari sì, ma visionari che sanno fare i conti. O meglio: «visionari» che sanno che cosa vuol dire fare i conti e ne riconoscono la rilevanza e «calcolanti» che sanno che cosa vuol dire avere una visione e ne riconoscono la rilevanza”.

💥 Note.

1. Salvatore Veca, Il mosaico della libertà, Bocconi Editore, Milano 2021. La citazione di Montaigne si trova a pagina 81. Cfr. Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano 2019, pp. 123-133 (Della pedagogia).
2. Ibidem, p. 77.
3. Ibidem, p. 76.
4. Nuccio Ordine,L'utilità dell'inutile, Bompiani, Milano 2013.
5. Salvatore Veca, Il mosaico della libertà, cit., p. 79.
6. Ibidem, p. 79.
7. Ibidem, p. 82.
8. Ibidem, p. 83.
9. Ibidem, p. 85.

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8 commenti:

  1. Non a caso, lo snodo è dato da Montaigne, che per formazione discende dalla cultura classico umanistica imbevuta della filosofia greca. Ci riporta ancora e sempre a Socrate e al confronto con quel versante della Sofistica che si limitava ad istruire. Chiuso nei confini della sola competenza, il sapere si rinsecchisce e - pericolo - si dogmatizza.
    Un post bellissimo e quanto mai opportuno, per contrastare una deriva pericolosissima.
    Grazie Rossana!

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    1. Sapere non solo come saper fare, ma come saper essere. Montaigne, in effetti, lo dice benissimo, a più riprese, nel suo saggio sull'educazione: "Bisognerebbe chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l'intelletto e la coscienza". E ancora: "Non è sufficiente che l'educazione non ci guasti, bisogna che ci cambi in meglio".
      Grazie Rosario, molto acuto e arricchente il tuo commento. Un abbraccio.

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  2. Giustamente, i due modelli - sapere utile e sapere interpretativo - devono andare insieme e completarsi a vicenda.
    Avendo insegnato per anni in un istituto tecnico, ho vissuto sulla mia pelle il prevalere del primo aspetto sul secondo, in nome di quella spendibilità immediata del sapere che tuttavia è molto molto riduttiva.
    Come sempre un articolo profondo e stimolante.
    Grazie, cara Rossana e buona festa dei Santi!

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  3. Cara Annamaria, penso proprio che tu abbia sentito profondamente, nella tua lunga esperienza di insegnamento, la necessità di trasmettere la tensione verso un sapere che apra orizzonti di valore e di senso. Tanto più - credo - per la tua passione nei confronti della musica e dei mondi che essa dischiude.
    Grazie! Un grande abbraccio.

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  4. Grazie per questo suggerimento di lettura. Sono del tutto d'accordo con le considerazioni del filosofo gentile: la conoscenza interpretativa e quella utile devono essere due sentieri di un percorso unitario. Un abbraccio.

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    1. Ciao, Maria. Ci troviamo, come sempre, in piena sintonia. Un abbraccio.

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