Carl Rogers |
40
anni fa discutevo la mia tesi di specializzazione didattica in psicologia
su Carl Rogers (1902–1987). Lo ritenevo e continuo a ritenerlo un autore che
non è mai stato di moda, ma proprio questo suo essere demodé o,
meglio, “amodé” ha illuminato con la sua psicologia umanistica
la vita professionale ed anche personale e relazionale di tante persone.
Per quanto mi riguarda l’atteggiamento non direttivo applicato sia nei rapporti
interpersonali sia nell’azione educativa mi ha aiutato non poco nel mio servizio
prima di docente e poi di preside.
Provo
a dire perché,....
pur partendo dalla premessa sugli indubbi limiti teorici della concezione rogersiana, la quale, pervasa da un ottimismo troppo “angelicato” e troppo diffidente nei riguardi della psicanalisi, non può non fare i conti - ed è bene che lo faccia - con un “ottimismo tragico”, ben consapevole del groviglio di eros e thanatos presente in ognuno di noi e nel mondo delle relazioni sociali.
Ciò non cancella per nulla la valenza profonda della “congruenza” in ogni rapporto interpersonale autentico.
pur partendo dalla premessa sugli indubbi limiti teorici della concezione rogersiana, la quale, pervasa da un ottimismo troppo “angelicato” e troppo diffidente nei riguardi della psicanalisi, non può non fare i conti - ed è bene che lo faccia - con un “ottimismo tragico”, ben consapevole del groviglio di eros e thanatos presente in ognuno di noi e nel mondo delle relazioni sociali.
Ciò non cancella per nulla la valenza profonda della “congruenza” in ogni rapporto interpersonale autentico.
L’atteggiamento non direttivo non è solo tipico dello psicoterapeuta di ispirazione rogersiana, ma potrebbe e dovrebbe investire tutti coloro che hanno compiti e responsabilità di formazione, educazione, animazione sociale. Esso consiste nel riporre fiducia nella capacità di ogni persona di conoscere se stessa ed il mondo che la circonda, purché possa valersi dei mezzi necessari per assumere una propria consapevole autonomia, liberando e trasformando la propria realtà personale.
La non direttività non è una furbizia tecnica, ma un atteggiamento che è efficace solo se fa parte integrante della weltanschauung della persona che l’applica. Prima di tutto riguarda noi stessi: apprendistato continuo dell’accettazione di sé, della propria solitudine e differenza con gli altri; attenzione a ciò che succede dentro di noi per identificare i nostri punti deboli, vulnerabili, i nostri spazi protetti, le nostre maschere, perché non si può comunicare autenticamente se non si sa comunicare con se stessi, se non si è “congruenti”.
Congruente
è chi è coerente con se stesso, chi sa ascoltarsi, chi è lucidamente partecipe
di tutto ciò che in lui avviene, chi è lo stesso sia interiormente sia
esteriormente, perché ciò che sente è ciò che esprime.
E’
il paradosso non direttivo: l’attenzione all’altro, la sua valorizzazione
incondizionata, la disponibilità ad accogliere il messaggio dell’altro sono
possibili solo se si è capaci di sperimentare tali sentimenti verso se stessi e
viceversa.
Non a caso Rogers riteneva che fosse proprio l’incongruenza “il tipo comune” di alienazione degli uomini e donne di oggi: discrepanza tra i valori acquisiti e le scelte effettive; incapacità di instaurare rapporti paritetici con l’altro; estraneità a se stessi nella costrizione a vivere le condizioni altrui come originariamente proprie; dogmatismo e rigidità mentale come difese patologiche della propria alienazione.
Non a caso Rogers riteneva che fosse proprio l’incongruenza “il tipo comune” di alienazione degli uomini e donne di oggi: discrepanza tra i valori acquisiti e le scelte effettive; incapacità di instaurare rapporti paritetici con l’altro; estraneità a se stessi nella costrizione a vivere le condizioni altrui come originariamente proprie; dogmatismo e rigidità mentale come difese patologiche della propria alienazione.
La congruenza non è dunque cosa da poco, perché - così commenta M. Pagès (L’orientamento non direttivo in psicoterapia e psicologia sociale, Coines, 1974) - implica l‘accettazione dell’esperienza dell’angoscia al livello più profondo: l’angoscia della solitudine, della separazione, della differenza rispetto all’altro, della morte. L’esperienza pienamente assunta di tali angosce fondamentali è paradossalmente esperienza del loro contrario. Accettare la propria individualità, la propria contingenza, in definitiva la propria morte, significa accettare di cambiare, accettare di vivere, accettare la relazione con l’altro non come fuga da me stesso o come impossibile unione che mi protegga dalla mia solitudine. Non ho nulla da chiedere agli altri, nulla se non scambiare le nostre solitudini, senza mai confonderle perché sarebbe negarle. Nello stesso tempo l’accettazione della condizione di essere separato mi permette di compenetrarmi nel dramma dell’altro, distinto dal mio ma parallelo, e di scoprire la nostra solidarietà. E’ una concezione evidentemente non solo psicologica, ma metapsicologica, fondamento di ogni relazione umana. E’ empatia. Rogers usa la metafora di “calore freddo”, un “sentire” (“to feel”) gli altri che rinnega ogni permissività, indifferenza, neutralità, noncuranza.
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