Come non diventare nomadi qualunquisti?
Post di Gian Maria Zavattaro
Immagini di Patrik Svensson (qui il sito instagram)
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Patrik Svensson |
Un ben pensare è più che pensare: così scriveva Morin a proposito della visione di Pascal circa la marginalità della nostra terra, terzo satellite di un sole astro perduto in una galassia periferica fra miliardi di galassie di un universo in espansione. Ciò dovrebbe ridimensionare il nostro incredibile gigantismo, sollecitarci a vivere la nostra precarietà con serena gioia, condividendo amore amicizia stupore tenerezza verso i nostri fratelli e sorelle (d’ogni razza età lingua ,d’ogni religione o nessuna) e verso ogni forma vivente. Sarebbe liberarci dalla frammentazione del nostro esistere per cogliere l’essenziale, magari fino a giungere alle soglie del Mistero.
Insomma semplicemente dovremmo “ben pensare”: non il pensare “prosaico” (esclusivamente dedito a compiti utilitaristici) ma il pensare “poetico” (dal greco poiesis) processo attraverso cui viene all'esistenza qualcosa che non c'era, azione che porta dal non-essere all'essere. Nel linguaggio comune si chiama poesia, votata alla gratuità, al kalòs kai agathòs, cioè al "bello e buono" .
Siamo tutti pellegrini, tutti nomadi, di passaggio, in viaggio. Il nostro è un pianeta nomade ed ognuno di noi è contrassegnato dalla sua “identità nomadica”, ognuna diversa, divergente, spesso anche opposta rispetto alle altre ….
1. C’è chi banalmente esprime il suo nomadismo nello shopping dei mega-supermercati o nelle carrellate virtuali dei social, ovvero nel :consumo frenetico di merci, di “mi piace”, chiacchiere compulsive: vagabondaggi di chi nell’intimo del suo vivere più o meno consapevolmente rifiuta la propria precarietà nel fluttuante conformismo di ’“uno nessuno centomila” e dell’ “UGUALE”. (1)
2. C’è il nomadismo dei migranti, disperata ricerca di una terra mai promessa:per gli “uguali” avvisaglia di apocalittiche transumanze che sconvolgeranno e ridurranno i nostri territori a congerie frammentata di branchi di individui persi nella loro reciproca incomunicabilità.
3. C’è il nomadismo eco-turistico estivo compulsivo di chi - a piedi in bici in moto in auto in caravan…- non sa vedere né le meraviglie del creato né il volto degli altri, indifferente nella propria ebbrezza vacanziera agli sconci disastri che coinvlgono milioni di persone d’ogni età e condizione
4. Ci sono i pellegrini che specie in quest’anno del giubileo vanno a Roma o in tutte le sedi giubilari e fanno del loro pellegrinaggio un simbolo vivente della loro fede: metafora del cristiano, nomade che vive fino in fondo l’impegno dell’incarnazione, nel mondo ma senza essere del mondo, ben sapendo che la terra promessa è nell’altrove, come ci ricorda la “Lettera a Diogneto”.
5.Ed ancora tante altre forme di odierno nomadismo tragico: i barconi sommersi nel Mediterraneo, lo scempio di innocenti morti in Palestina, in Ucraina, SudAmerica e in tanti troppi paesi africani.
Che cosa dire di queste difformi e contrastanti identità nomadiche del nostro tempo? C’è qualcosa che le accomuna? Forse il fatto che siamo tutti viandanti, di passaggio come passaggio è la vita degli uomini, tutti stranieri ed insieme tutti ospiti, tutti ospitanti ed insieme tutti ospitati.
Tra ospitalità e ostilità il passo è breve e l’hospes può diventare hostis, nemico e alieno: come succede oggi ai migranti (viandanti respinti, bloccati nei porti italiani o, peggio, nei lager albanesi, libici o negli USA e in tanti altr paesi) et anti paesi tra loro confinanti, divenuti nemici da combattere fino all’auto-etero distruzione.
Ospitalità-ostilità: dialettica presente sin dall’antichità. L’ospite era, sì sacro e l’ospitalità la più fulgida virtù, ma lo straniero, proprio perché tale, non aveva diritti: preda da cacciare, uccidere, sacrificare, espellere e ridurre in schiavitù…
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Patrik Svensson |
Eppure siamo tutti nomadi, tutti di passaggio, in viaggio. Come l’Odisseo omerico o l’Ulisse dantesco od Abramo. Ma oggi non ci sono né Omero né Dante né Levinas a leggere le nostre divergenti ed opposte “identità nomadiche”, a trasfigurare storie ansie odissee in figure poetiche o tragiche o eroicamente fiduciose nelle promesse del totalmente Altro...
E allora perché non interrogarci a fondo su quanto si può ricavare oggi dal nomadismo di Ulisse e di Abramo e capire in quale identità nomadica ci riconosciamo?
Siamo tutti nomadi ma con mille modalità e prospettive diverse: chi parte - chi torna - chi resta - chi non ha fissa dimora - chi ha sontuose dimore - chi cammina verso una meta - chi non cammina- chi ha perso il senso della meta - chi si sente ospite - chi si considera padrone - chi vive con leggerezza la precarietà - chi ne sente l'angoscia - chi non si pone il problema -. chi trova compagni di viaggio, - chi procede da solo - chi odia - chi ama - . chi s’indigna - chi si piega - chi si umilia - chi è umiliato - chi se ne frega - chi è ricco - chi è povero - chi si crede immortale - chi è nessuno …
In questo tempo oscuro ognuno di noi rischia di essere defraudato da un nomadismo contagioso che ogni giorno accresce l’esercito dei replicanti e degli “uguali” non pensanti. E’ il nomadismo che mette in gioco la dimensione sociale e comunitaria delle persone, sacrificate ad una pseudocultura che nega comunione e solidarietà, che vive di ciò che i media decidono e fanno esistere, che predica e sollecita la prassi del “prendi e fuggi”, dell’“ognuno per sé”, dell’attimo fuggente, della difesa dei propri privilegi, dell’arroganza, degli egoismi corporativi etnici e razzisti, del liberismo spietato.
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Patrik Svensson |
Come non diventare nomadi qualunquisti? Lo diventiamo nella ridda di maschere che ognuno indossa e smette in giochi senza fine, in un mondo dove non ci si riconosce sottoposti a nulla e si vive tranquillamente la convertibilità degli opposti, dove la politica è il regno dell'assurdo, del tragicomico e del grottesco (“tanto sono tutti uguali”). Lo diventiamo quando ci asteniamo da ogni presa di posizione per indifferenza, cronica insensibilità, incapacità di guardare ad un orizzonte di vita che va oltre la nostra. Lo diventiamo quando scegliamo la “fuga dalla libertà” sottomettendoci ad altri (persuasori occulti, il “pensiero unico”...), diventandone parte, distruggendo la nostra integrità, compiendo gesti dettati da altri, lasciandoci dominare dal bisogno ossessivo di tiranniche decisioni e convinzioni confezionate. Lo diventiamo quando ci condanniamo alla soppressione del pensare, al ristagno conformista, all’istinto di ripetizione, ai linguaggi stereotipati. Lo diventiamo quando quotidianamente ci distogliamo dalla consapevolezza dei problemi basilari della nostra esistenza umana, persi in compiti che bruciano il nostro tempo e le nostre energie, ci negano all’amore e alla solidarietà, annegandoci nella solitudine o nella frammentarietà. Lo diventiamo quando ci irretiamo nella trappola di un’autorità invisibile anonima: nessuno ordina, tutti ci conformiamo all’autorità di “oggetti-soggetti” invisibili (economia, mercato, “senso comune”, opinione pubblica). Chi può ribellarsi contro nessuno? E si fa ciò che tutti fanno per non essere giudicati strani perché differenti, cioè non uguali. Nel confuso tempo presente ognuno di noi rischia di non riconoscere più ciò che è cenere e ciò che è sostanza, ciò che è polvere e ciò che è inizio di nuova vita:l’inessenziale trionfa nel silenzio dell’essenziale. Il costo più doloroso? La perdita dell’”agape” = comunità-fraternità, in un mondo senza il coraggio di progetti grandiosi.
Non arrendiamoci. Possiamo in ogni momento riappropriarci ed essere noi stessi, ciascuno con la sua irripetibile identità. Penso ad un brano di Vangelo (Lc 10,25-28:“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima,con tutte le tue forze, con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso. Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. E ripenso sia a letture recenti (in particolare Chiara Amirante. L’amore vince - il balsamo del perdono, che invito vivamente a leggere) sia a remote letture della mia giovinezza (E. Fromm, L’arte di amare e Fuga dalla libertà). (2)
Se solo lo vogliamo, nessuno può riuscire a sradicare il nostro bisogno di weltanshaung, il gusto di vivere intensamente la vita, di rinascere capaci di prestare “attenzione” secondo S. Weil. Basta non rassegnarsi a finire in una società disfatta sistematicamente per essere poi presa da poche mani, carpita da coloro che da tempo si sono preparati, così scaltri da abbindolare i semplici e comprare furbi e furfanti.
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Patrik Svensson |
Se noi adulti ed anziani non abbiamo saputo o potuto portare a compimento la realizzazione di una società più giusta e solidale, almeno affidiamo alle nuove generazioni queste nostre speranze con coerenti testimonianze.
Note
1.Cfr. Byun-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, ed. Nottetempo, Roma, 2017, p. 100. Vedasi anche, per chi può essere interessato, il nostro post “L’espulsione dell’altro” pubblicato il 18.9.2018: questo il link.
2. Chiara Amirante: “L’amore è il balsamo capace di sanare le nostre ferite più profonde e le relazioni che si sono spezzate. L’amore può tutto, è più forte della morte”, o.c., retrocopertina. Erich Fromm, dalle cui letture quando ero giovane ho tratto molti spunti di riflessione, affermava che l’unica passione che può soddisfare il bisogno di unione e nello stesso tempo salvaguardare la nostra dignità ed integrità è l’amore come esperienza di partecipazione, di comunione, di interessamento, solidarietà, rispetto (da re-spicere), responsabilità, conoscenza Nel 1941, durante il suo esilio negli Stati Uniti, Erich Fromm pubblica il suo saggio forse più celebre, Fuga dalla libertà. In questa opera, esplora il profondo disagio dell’uomo moderno che, lasciatosi alle spalle le certezze delle strutture feudali, si ritrova smarrito nelle logiche della società capitalista. La condizione di libertà, seppur (apparentemente) conquistata, genera insicurezza e paura, spingendo l’uomo a cercare rifugio in regimi autoritari e totalitari che, offrendo una falsa promessa di forza e stabilità, mascherano, a detta dell’autore, il desiderio di sottomissione e la paura della responsabilità. Sono convinto che il libro di E. Fromm , pur nella sua inattualità, possa aiutarci a capire qualcosa di noi e delle vicende del nostro tempo. Fromm scriveva “fuga dalla libertà” nel 1941, descrivendo i meccanismi di perdita della libertà sia nei regimi totalitari sia nei paesi cosiddetti democratici. Di acqua ne è passata sotto i ponti della storia. Oggi come allora unirsi agli altri esseri viventi ed essere loro collegati è un bisogno imperativo dal cui soddisfacimento dipende la salute psichica dell’uomo. Questa unione può essere raggiunta in diversi modi: sottomettendosi ad una persona, un gruppo, una istituzione, diventando parte di altro o di altri; oppure dominando, facendo in modo che gli altri siano una parte di noi. Il risultato di entrambi, sottomissione o dominio, è la sconfitta dell’identità: mirano all’unità ma distruggono l’integrità. L’unica passione che può soddisfare il bisogno di unione e nello stesso tempo salvaguardare la mia dignità ed integrità è, secondo Fromm, l’amore, come esperienza di partecipazione, di comunione, di interessamento, rispetto (da re-spicere), responsabilità, conoscenza (l’ebraico jadoa) della storia.
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