La fede vede
ciò che è,
la
speranza vede ciò che sarà.
La
carità ama tutto ciò che è,
la speranza
ama tutto ciò che sarà
(Ch.
Péguy)
Che cosa indichiamo quando parliamo di utopia? |
L'utopia è l'inesistente (a-topos)? |
L'utopia è una realtà che non è in nessun luogo fisico (ou-topos)? |
L’utopia è per l’esistenza della società, dice Ricoeur, ciò
che l'invenzione è per la conoscenza scientifica: progetto immaginario di un
altro tipo di società, ricerca di un modo alternativo di pensare ed essere,
capacità di trascendere il presente ed anticipare il futuro. Non è
fantasia erratica, fiume senz’acqua, eccentrica schizofrenia, ma promessa di
una verità nuova ”anticipata e pregustata in fantasia”.
E’ denuncia ed
annuncio: denuncia che ogni sistema può essere messo in discussione; annuncio
che il futuro è campo per modi alternativi di vivere. L’utopia “porta nei
suoi lineamenti segnati il tempo e il luogo reali della sua nascita; basta
rovesciarla per avere il contorno della realtà di cui è negazione; è l’immagine
rovesciata di una realtà di fatto. L’utopia che sola merita questo nome è un
irreale, sì, ma un irreale che nasce dalla realtà per il fatto stesso di
negarla e ritorna alla realtà perché è forza che trasforma la realtà per
renderla simile a sé”(A. Tilgher in Tempo nostro, a cura di
Salvatorelli, Bardi, Roma, 1946, pp.8-13).
Oppure l'utopia è anticipazione di un mondo diverso e migliore (eu-topos)? |
L'utopia è rovesciamento e negazione dell'esistente. |
Molti filosofi, non ultimo Popper, si sono scagliati contro
le tare profonde e le contraddizioni di molte utopie storiche, delle quali
giustamente condannano il pensiero statico ed inevitabilmente totalitario, la
rigidità del perfezionismo e la meticolosità dove nulla è lasciato al caso,
l’intolleranza del dogmatismo e del totalitarismo, la preoccupazione patologica
del controllo dei giovani e del monopolio dell’educazione.
Ma l’utopia, la
“nostra” utopia, non teme queste critiche: non solo conserva di Platone la
cocciutaggine, non solo si libera da ogni forma di intolleranza, ma ritrova la
speranza nel futuro ridisegnando perennemente il proprio volto,
consapevole che ogni volta deve morire per risorgere in altra. E’ pensiero in
cammino, pensiero nomade, sempre incompiuto ed in conclusivo, verso una terra
promessa mai posseduta. Anche per questo o forse soprattutto in questo è
la grandezza di Platone, cui dobbiamo la gratitudine di essere stato il
paradigma di questo modo di pensare alternativo.
In realtà oggi ciò che va di moda è la sua antitesi,
l’anti-utopia, che non si aspetta nulla, che vive giorno per giorno
la vita segnata dall’assenza di ogni progetto, che si perde nel presente
liquido e nella frenesia delle vite di corsa, dove non c’è spazio per la
resistenza tragica o per le scelte di Francesco d’Assisi.
L'utopia può generare violenza, se diventa rigida e dogmatica. |
L'utopia di cui parliamo positivamente è movimento, è pensiero in cammino. |
L'anti-utopia è la ragnatela di un quotidiano senza progetti. |
L'utopia è ampiezza di orizzonti. |
L'utopia è proiezione creativa verso il futuro. |
L'utopia è la porta aperta sul nuovo (René Magritte, L'embellie). |
P.S. Come credente so bene che in ogni caso il discorso
rimane monco e non posso nascondermi l’“impotenza dell’utopia”: nessuna
speranza terrena può rappresentare il traguardo definitivo perché ogni risultato
viene superato nel momento stesso in cui è raggiunto, perché il male che ogni
giorno si espande con insolenza oltre ogni immaginazione (luoghi di
sterminio, torture, sofferenze indicibili delle continue guerre, atti di
violenza che sembrano moltiplicarsi, sistemi diversi di sfruttamento,
fallimenti di ogni genere) è una sfida alla speranza, tanto più quando il
male viene da noi stessi. Soprattutto so bene che l’utopia inevitabilmente si
scontra con l’ultima sfida, lo scacco della morte ineludibile per ognuno di
noi. Per Jaspers la morte, rivelando l’intimo nucleo dell’essere umano come
aspirazione insopprimibile a vivere, è la situazione-limite per la
speranza: o ci chiude inevitabilmente nei limiti della nostra
esistenza mondana o ci apre fiduciosamente alla speranza di un futuro
trascendente. E’ possibile una speranza che dia significato anche là dove
sembra regnare il non senso e l’assurdo, che inglobi nella sua prospettiva le
speranze terrene che mirano alla trasformazione del mondo, ma insieme
vada oltre la loro presunzione perché in esse non trova la salvezza
che attende? Per il cristiano sì: speranza che spera, che prende in
carico le nostre aspettative, le nostre utopie, i nostri insuccessi e li
oltrepassa, li porta più lontano, al di qua ma anche al di là della
morte. E’ la speranza in Dio morto e Risorto, risposta alla Sua chiamata ed
alla Sua promessa di salvezza. Ma questo è un discorso
che meriterebbe ben altri approfondimenti.
Chi desidera intervenire può andare qui sotto su "commenta come", nel menù a tendina selezionare "nome/URL", inserire solo nome e cognome e cliccare su continua. Quindi può scrivere il proprio contributo sul quale rimarrà il suo nome ed eventualmente, se lo ritiene opportuno, può lasciare la sua mail.
Chi desidera intervenire può andare qui sotto su "commenta come", nel menù a tendina selezionare "nome/URL", inserire solo nome e cognome e cliccare su continua. Quindi può scrivere il proprio contributo sul quale rimarrà il suo nome ed eventualmente, se lo ritiene opportuno, può lasciare la sua mail.
Credo che sia importante la tensione e poi il viaggio per raggiungere...l'utopia, che forse, risiede proprio nell'attesa e nell' andare verso l'oltre!
RispondiEliminaGent.le sig. Fernando, mi pare bella questa tensione volta a coltivare l’utopia per una comunità giusta e solidale, che poggia sulla centralità della persona, sull'etica della responsabilità e della promessa, sulle diversità non subite ma accolte come ricchezza. In questa tensione “verso l’oltre” ognuno di noi può essere testimone sul territorio della speranza che sa affrontare il vero compito dell'uomo, che consiste nella responsabilità verso l'altro e nell'onorare il proprio servizio.
RispondiElimina