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domenica 14 giugno 2015

Identità intima e identità sociale. Io e la mia faccia pubblica.


Io e la mia faccia... 
(James Ensor, Autoritratto 
con maschere, particolare)
Io ho bisogno di sentirmi esistere agli occhi di qualcuno, di avere un posto ed un significato in relazione alle posizioni degli altri. Io preferisco di gran lunga essere contestato piuttosto che essere ignorato e non considerato. Io ho bisogno di vedere  accordata e  riconosciuta la mia autostima in modo tale che mi capita di presentare gli aspetti migliori capaci di suscitare approvazione e mascherare, spesso inconsapevolmente soprattutto negli scambi formali, le mie debolezze. “Io” vuol dire “ognuno di noi”, perché nessuno  ama  “fare una pessima figura” né “perdere la faccia”.

...la mia “faccia sociale” 
(J. Ensor, Autoritratto 
con maschere, particolare)
Secondo E. Goffman (Le rites d’interaction, 1974), ognuno di noi  ha la sua bella “faccia sociale” da  salvaguardare: “è l’immagine di sé che ogni persona rivendica nelle relazioni sociali, ricercando una conferma dell’immagine che lui stesso desidera vedere riconosciuta e ratificata dall’altro”.
A me sembra che questo valga sia nel mondo reale  sia in quello virtuale di google o facebook o twitter. Sin dal primo contatto  ci si preoccupa di promuovere  la propria immagine  e richiedere il riconoscimento dell’altro. Un bisogno tanto più cogente  quanto più si è insicuri.

Il bisogno di vedersi 
riconosciuti dagli altri
(J. Ensor, Vecchio uomo con maschere)
Giusto? Sbagliato?  Entrambi, dipende. L’identità che vorremmo fosse riconosciuta (“l’identità sociale”)  non può essere ridotta ad una finzione e ad una maschera: il ruolo sociale non è solo un modo stereotipato di presentarsi agli altri, ma anche “la faccia interattiva del soggetto“, l’espressione socializzata della sua personalità. La parola  scambiata  nell’interazione sociale offre alla “identità intima” l’opportunità di confrontarsi e anche scontrarsi con “l’identità sociale”  di sé. Il confronto  o lo scontro con le immagini degli altri consentono una rivalutazione o una realistica razionalizzazione della propria percezione di sé, un sentimento di identità più stabile, premessa per una migliore comunicazione con gli altri. 

“L'identità intima” 
e “l’identità sociale” di sé 
(J. Ensor, Autoritratto con maschere)
L’identità del soggetto è frutto dello scambio tra  la percezione di sé e lo sguardo degli altri. Quando io ed un’altra persona parliamo, non solo trasmettiamo emozioni sentimenti pensieri, ma reciprocamente tendiamo ad adeguarci allo sguardo dell’altro, a farci riconoscere ed accettare. “Il possesso della parola è relazione di potere“ e contribuisce a influenzare, trasformare positivamente o negativamente l’interlocutore.

Io e lo sguardo dell'altro 
(J. Ensor, I giudici)
Quando parlo  in pubblico, per esempio, so benissimo  di espormi e di assumere il rischio di essere giudicato e bocciato oppure di essere apprezzato e riconosciuto. Nel primo caso il pubblico diventa etereo, quasi invisibile, non trovo su chi fermare lo sguardo per non cogliere forme di rifiuto che mi spegnerebbero; nel secondo caso vivo un’interazione rasserenante che non solo mi gratifica ma mi spinge a dare il meglio di me.

Il condizionamento del pubblico 
(J. Ensor, Musica russa)
Immagino che ognuno di noi, quando parla in pubblico, a suo modo controlli l’immagine positiva della propria identità:  ogni parola è in qualche modo la risultante di una costante negoziazione più o  meno consapevole tra ciò che si vuole comunicare e ciò che in quel contesto conviene dire ed appare accettabile a chi ascolta od  interloquisce. E allora ecco le pause, le esitazioni, le scelte accurate delle parole, le rettifiche, le integrazioni,  i rituali fatti di battute, di gesti, di suadenti sceneggiate...: autoaggiustamenti correttivi che si mettono in atto nell’anticipare o cogliere immediatamente le posizioni dell’altro, le sue reazioni verbali e soprattutto non verbali che esprime e lascia intendere.

Io e la mia immagine... 
(J. Ensor, Le strane maschere)
Dunque l’immagine che io ho di me non è indipendente dall’immagine che gli altri hanno di me: il loro sguardo, il loro comportamento verbale e non verbale sono  una sorta di specchio (anche deformante)  che mi rinvia l’impressione che  di me gli altri si sono  costruita.
Goffman attraverso la nozione di “faccia” ha descritto la nozione ritualizzata di questo fenomeno: la presentazione di sé attraverso l'espressione, la parola, i gesti, le posture, il comportamento, il modo di pettinarsi e di vestirsi, i tatuaggi... Tutto mira a produrre un’immagine che ciascuno propone e desidera vedersi confermare dagli altri. Ogni interpretazione dell’interlocutore lontana dal significato che il soggetto intende dare è vissuta come attacco e minaccia per “la faccia” che egli rivendica.

La minaccia al proprio io 
da parte degli altri 
(J. Ensor, I cattivi dottori)
Non è certo anormale che ogni singola presa di posizione sia  accompagnata da paura, insicurezza o ansietà per l’immagine che gli altri si potrebbero costruire di noi. E’ un’interazione complessa  che non esclude il conflitto tra l’immagine percepita e l’immagine concepita,  tra “l’identità sociale e l’identità  intima”.

Un rapporto complesso 
con le nostre maschere...
(J. Ensor, L'intrigo)
Eppure ci sarebbe la   condizione strategica per controllare l’immagine positiva della propria identità: basterebbe serenamente e costantemente (ma anche faticosamente) gestire, vivere e mostrare  il processo di costruzione o ricostruzione della propria identità senza contraddizioni tra ciò che si è e ciò che si deve e vuole essere.

... tra ciò che si è e ciò che si vuole essere 
(J. Ensor, Autoritratto con maschere).

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