Immagine tratta dal video dei Simple Plan, Welcome to My Lyfe, 2004, una canzone in cui è espressa la rabbia incompresa di un adolescente. |
In
questo nostro tempo di profondi cambiamenti, di incertezze e di smarrimenti parole
come solidarietà e accoglienza sono sempre più sulla bocca di tante persone,
come reazione al nostro mondo “liquido” e modalità concrete di promuovere nuovi stili di vita e
di relazione interpersonale. Soprattutto
nella scuola abitano e trovano terreno questi semi di speranza, cuore della
paideia. Il loro significato tuttavia, se dato per scontato e non chiarito, rischia l’ambiguità di interpretazioni e comportamenti disparati.
Accoglienza
è assistenzialismo sentimentale, frutto
di mera esperienza emotiva, o un fatto culturale? Atto di debolezza o di
forza? Optional paternalistico o dovere che liberamente si sceglie e si adempie? Gesto isolato del primo giorno
di scuola o dimensione stabile? Si
riduce ad un generico appello etico o richiama fortemente i valori ed il
primato dell’etica della responsabilità?
E’ imperativo della singola persona – docente, studente, genitore -, è problema collegiale
ed istituzionale oppure unità di entrambi?
Se a definire il grado di civiltà di una
società - e nel concreto la valenza inclusiva di una scuola - è la capacità di
dare tutela alle persone ed ai gruppi più deboli, parole come solidarietà ed accoglienza devono assumere un significato univoco. Scriveva
De Rita che accoglienza “non è solo prestarsi per qualcuno in difficoltà senza
lasciarsi sopraffare nel lavoro dalla dimensione burocratica e amministrativa;
innanzitutto è una mentalità, un atteggiamento di fondo, una disposizione anteriore
all’agire, ospitalità dell’altro nel proprio orizzonte personale e
professionale, solidarietà. Non si improvvisa; si costruisce poco alla volta
nelle circostanze in cui ci si trova; è cultura, essenzialmente educazione”.
Diciamolo
pure: l’accoglienza (come la solidarietà) soprattutto nella scuola è il luogo della sproporzione, della
asimmetria, luogo della ”differenza” come “non-indifferenza”, volontà di mettersi
a disposizione, di consegnarsi al “tu”
che si incontra. Comporta un’obbligazione senza possibilità di scampo: ”diaconia”
(scriveva Lévinas), servizio nel dialogo con l’altro.
Accogliere non è semplicemente fare qualcosa per gli altri, ma educarci ad essere, educarci a diventare pienamente persone, a realizzarci nel dono di sé, perché tutto avviene anzitutto a partire dalla nostra persona. Non è dunque qualcosa che si improvvisa, un’ideuzza da consultorio con cui si pensa di mettere a proprio agio ragazzi e ragazze che durante le ore di lezione sono a disagio.
Penso al “mal di scuola” di tanti studenti, agli “inciampi nell’apprendimento”: a quelli attribuibili alla società nel suo insieme, almeno come difficoltà generale a conciliare le esigenze del sistema formativo e del sistema produttivo; a quelli generati da situazioni che lo studente vive all’esterno della scuola (richieste od aspettative esagerate da parte dei genitori, difficoltà economiche della famiglia, cattivi rapporti con i coetanei); agli ostacoli emotivi all’apprendimento (ansia, senso di impotenza, disistima di sé, sfiducia nei riguardi del docente); a quelli generati dai docenti, quando non mantengono le promesse formative della scuola distribuendo indiscriminatamente la ricchezza del sapere ad alunni che hanno diversa cultura personale e familiare, trattando insomma i disuguali in modo uguale, cosa dappertutto e specie nella scuola semplicemente iniqua, maschera menzognera della giustizia, come ben denunciava don Milani.
Qualche esempio? I giovani percepiscono subito la mancanza di attese nei loro confronti, sentono nettamente quando su di loro nessuno ha puntato: reiterati giudizi verbali e non verbali (“il solito risultato!”, “Anche questa volta non sei riuscito”, “perché non cambi scuola?”) non fanno che consolidare nel giovane la poca fiducia in sé e la percezione di incapacità.
L’accoglienza in questo caso consiste nell’evitare che il singolo alunno venga pregiudicato da un pensiero “predittivo” (il ben noto ”effetto Pigmalione” per il quale ciò che uno oggi è lo sarà anche nel futuro), escludendo possibilità di cambiamento e di risposte ai suoi bisogni primari (fiducia in sé, sguardo positivo dell’adulto, valorizzazione dei “talenti” della propria persona): evitare cioè che lo studente cada in una “impotenza acquisita” (lasciarsi andare, deprimersi: “Io ce l’ho messa tutta, ho studiato, ma non è cambiato niente”) e costruire invece un ambiente in cui si trovi a proprio agio, si senta protagonista, accetti situazioni che richiedono e permettono la “prova” delle proprie competenze e anche dei propri limiti.
Accogliere non è semplicemente fare qualcosa per gli altri, ma educarci ad essere, educarci a diventare pienamente persone, a realizzarci nel dono di sé, perché tutto avviene anzitutto a partire dalla nostra persona. Non è dunque qualcosa che si improvvisa, un’ideuzza da consultorio con cui si pensa di mettere a proprio agio ragazzi e ragazze che durante le ore di lezione sono a disagio.
Penso al “mal di scuola” di tanti studenti, agli “inciampi nell’apprendimento”: a quelli attribuibili alla società nel suo insieme, almeno come difficoltà generale a conciliare le esigenze del sistema formativo e del sistema produttivo; a quelli generati da situazioni che lo studente vive all’esterno della scuola (richieste od aspettative esagerate da parte dei genitori, difficoltà economiche della famiglia, cattivi rapporti con i coetanei); agli ostacoli emotivi all’apprendimento (ansia, senso di impotenza, disistima di sé, sfiducia nei riguardi del docente); a quelli generati dai docenti, quando non mantengono le promesse formative della scuola distribuendo indiscriminatamente la ricchezza del sapere ad alunni che hanno diversa cultura personale e familiare, trattando insomma i disuguali in modo uguale, cosa dappertutto e specie nella scuola semplicemente iniqua, maschera menzognera della giustizia, come ben denunciava don Milani.
Qualche esempio? I giovani percepiscono subito la mancanza di attese nei loro confronti, sentono nettamente quando su di loro nessuno ha puntato: reiterati giudizi verbali e non verbali (“il solito risultato!”, “Anche questa volta non sei riuscito”, “perché non cambi scuola?”) non fanno che consolidare nel giovane la poca fiducia in sé e la percezione di incapacità.
L’accoglienza in questo caso consiste nell’evitare che il singolo alunno venga pregiudicato da un pensiero “predittivo” (il ben noto ”effetto Pigmalione” per il quale ciò che uno oggi è lo sarà anche nel futuro), escludendo possibilità di cambiamento e di risposte ai suoi bisogni primari (fiducia in sé, sguardo positivo dell’adulto, valorizzazione dei “talenti” della propria persona): evitare cioè che lo studente cada in una “impotenza acquisita” (lasciarsi andare, deprimersi: “Io ce l’ho messa tutta, ho studiato, ma non è cambiato niente”) e costruire invece un ambiente in cui si trovi a proprio agio, si senta protagonista, accetti situazioni che richiedono e permettono la “prova” delle proprie competenze e anche dei propri limiti.
Perché accogliere significa
anche riconoscere il limite di ognuno, a
cominciare dal proprio: non esiste accoglienza senza limite e senza uno spazio-tempo ad esso dedicato dove fermarsi, riparare, ricevere attenzione
per poi ripartire. L’accoglienza è per prima cosa conoscere se stessi, i
propri limiti e le proprie capacità, per
dare il meglio di sé, perché per amare
gli altri non si può donare agli altri
ciò che non si è. Per E. Fromm “essere
capaci di aver cura di sé è il requisito per poter essere capaci di aver cura
degli altri”: c’è differenza tra il dare
qualcosa come elemosina e il dare se stessi come amore oblativo.
Questa, a mio avviso, è l’accoglienza
nella scuola e forse non solo in essa: non guardare continuamente
l’orologio nell’ascolto dell’altro; collaborare ed operare insieme nella realtà
complessa interdipendente in cui viviamo, elaborando un progetto condiviso, un
metodo frutto della riflessione e dell’esperienza di tutti, confrontandosi,
mettendosi in discussione, accettando di cambiare. Accogliere è
dunque buttarsi allo scoperto, vivere ed affermare valori alternativi,
opponendo all’indifferenza la solidarietà, all’intolleranza l'ospitalità
reciproca, al rifiuto del diverso l’inclusione, alla sfiducia dilagante la
speranza. E fare entrare e diffondere nella nostra "società liquida"
questa mentalità, semplicemente testimoniandola.
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