La filosofia del linguaggio di Wittgenstein - nel suo affascinante percorso dal "primo" al "secondo" Wittgenstein - spiegata con l'aiuto di Tullio De Mauro e il ricorso al testo "Sull'etica".
Post di Rossana Rolando
Immagini delle illustrazioni di Gennaro Vallifuoco (qui il link).
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Gennaro Vallifuoco, illustrazione a
"Le Guaratelle", di Roberto De Simone |
Leggendo
il libro di Tullio De Mauro, Guida
all’uso delle parole, si incontra un capitolo intitolato Il filosofo e Pulcinella in cui si
racconta il percorso di uno tra i più influenti pensatori del Novecento: il filosofo e matematico austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951)¹. Tullio De
Mauro sa parlarne con semplicità - nonostante la difficoltà delle teorie legate
alla filosofia del linguaggio - da vero maestro, preoccupato di farsi capire,
come dice subito, senza cedere a tentazioni accademiche di sapore narcisistico.
Il
filosofo viene presentato a partire dal suo Tractatus logico-philosophicus
(1921), quindi dalla sua prima fondamentale opera sul funzionamento del
linguaggio, quella in cui la lingua viene considerata alla stregua di un
calcolo. In questa concezione le proposizioni sono simili ad operazioni
aritmetiche dal momento che le parole sono paragonate ai numeri e gli altri
simboli (le preposizioni, congiunzioni ecc.) sono assimilati ai segni che
permettono il calcolo (+; -; =; ✕; ecc). Tutti coloro che calcolano si intendono con
certezza se conoscono i meccanismi delle operazioni e i numeri cui sono
riconducibili tutte le possibili entità aritmetiche: “Forse uno può non avere
mai visto il numero 386.789,43. Ma le regole di formazione delle cifre arabe ci
consentono di capire al volo quanto vale questo numero perché tutti coloro che
conoscono l’aritmetica possiedono un numero ben delimitato di cifre (quelle che vanno dallo 0 al 9) che tutti conoscono e usano allo stesso modo”.² Se il parallelismo è valido questo dovrebbe
accadere anche nell’uso delle parole.
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Gennaro Vallifuoco, illustrazione a
"Le Guaratelle", di Roberto De Simone |
Si
aggiunga che, per Wittgenstein, ogni parola deve corrispondere a un fatto,
altrimenti è insignificante, non perché non abbia in assoluto un senso, ma
perché esorbita dal cerchio dell’esperienza di ciascuno. Se dico “piove”
descrivo un fatto e conosco quello di cui parlo. Ma se uso parole che non hanno
alcuna corrispondenza con i fatti – e sono le parole della metafisica, dell’etica,
della religione – esse risultano del tutto insensate dal punto di vista della
validità scientifica. Perciò il Tractatus si chiude con la famosa affermazione.
“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Fin
qui il “primo” Wittgenstein. Il cammino della vita porta però il filosofo ad
abbandonare l’idea esclusiva della lingua come calcolo, concezione troppo
povera per spiegare l’esperienza del linguaggio.
Ed
è a questo punto che, nel racconto di Tullio De Mauro, compare Pulcinella.
Ormai Wittgenstein è divenuto professore universitario, a Cambridge in
Inghilterra (1939-1947), e in quell’ambiente incontra, tra le altre eminenti
personalità, un grande economista, esule italiano antifascista, amico di
Antonio Gramsci, il torinese Piero Sraffa, a cui spiega il suo punto di vista
sul linguaggio, trovando tuttavia, in lui, resistenza.
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Gennaro Vallifuoco, illustrazione a
"Le Guaratelle", di Roberto De Simone |
A
un certo momento, per esprimere la sua titubanza, Sraffa fa ricorso al
linguaggio gestuale, quello di Pulcinella. Dice De Mauro: “Tra i molti gesti
[di Pulcinella], un posto importante hanno i vari tipi di grattatine. Per
esempio c’è la grattatina sulla testa. La si fa quando non ci si ricorda di
qualcosa, per significare “aspetta, sto cercando di ricordare” […]. Ma nella
serie delle grattate che hanno valore di segni c’è anche un’altra grattatina.
E’ quella che si fa, di solito con la punta delle dita della mano destra,
sfregando la parte sinistra del mento ripetutamente, dal basso in alto, da
destra verso sinistra. Il gesto è carico di significati. A tradurlo in parole
ci vuole un intero discorsetto, che più o meno potrebbe essere questo: «Si,
vedo. Certo, le cose pare proprio che stiano così. Però, eh: c’è qualcosa che
non vedo, ma sento che c’è, e che non mi persuade. No, forse le cose non stanno
così. Ma nemmeno di questo sono sicuro».³
L’atto
della grattatina, senz’altro eloquente - quindi parte integrante del linguaggio
– non è affatto suddivisibile in parti ben distinte e riconoscibili (come
supposto nella teoria della lingua calcolo): “inutilmente nel gesto si sarebbe
cercato il pezzo che voleva dire «sì» e il pezzo che voleva dire «sicuro», il
pezzo che voleva dire «sento» e il pezzo che voleva dire «cose» e via
seguitando”.⁴
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Gennaro Vallifuoco, illustrazione a
"Le Guaratelle", di Roberto De Simone |
Il
colloquio con Sraffa – insieme ad altri rilevanti incontri – innesca il
percorso del dubbio e apre la strada al “secondo” Wittgenstein. Anche l’esperienza
di maestro elementare cui si è dedicato in Bassa Austria negli anni che precedono l’impegno universitario in Inghilterra,
tra il 1920 e il 1926, lo accompagna nella nuova fase di riflessione: il suo
tedesco da filosofo, difficile e carico di pensiero, era molto distante dal
tedesco semplificato e ingenuo dei bambini, eppure la reciproca comprensione si
instaurava ugualmente.
Le
Ricerche filosofiche, pubblicate
postume nel 1953, saranno il frutto di un itinerario che porterà il filosofo a
tener conto di quel sovrappiù del linguaggio – rispetto alla dimensione
puramente scientifica – nell’uso specifico dei diversi contesti relazionali. In
questo spazio si collocherà la teoria dei giochi linguistici (variegati modi di
utilizzare il discorso in contesti diversi) e la necessità di ripensare quegli
ambiti in cui il linguaggio eccede rispetto alla semplice fattualità. Wittgenstein
dovrà ammettere che il legame parola–fatto (la gabbia entro la quale si
racchiude il linguaggio scientificamente valido) non riesce a dire il tutto
dell’esperienza umana (estetica, morale, filosofica, giuridica…) rimandando
quindi ad un oltre che rimane inesprimibile.
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Gennaro Vallifuoco, illustrazione a
"Le Guaratelle", di Roberto De Simone |
Nella
conferenza Sull’Etica, tenuta a
Cambridge tra il ’29 e il ‘30, Wittgenstein afferma: “La mia tendenza e, io
ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno cercato di scrivere o di parlare
di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio.
Quest’avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente,
assolutamente disperato. L'etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo”⁵; ed aggiunge, in un appunto dello stesso periodo:
“Ma la tendenza, l’urto, indica qualcosa”.⁶
Note.
1. Cfr. Tullio
De Mauro, Guida all'uso delle parole, Laterza, Bari 2019, pp. 65-70.
2. Ibidem,
pp. 69-70.
3. Ibidem,
p. 66.
4. Ibidem,
p. 66.
5. Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1988, p. 18.
6. Trovo questa
informazione sulle pagine dedicate alla conferenza Sull'Etica di
Wittgenstein da Italo Mancini, in Filosofia della prassi, Morcelliana,
Brescia 1986, p. 112.
Grazie di questo interessante articolo, scorrevole e profondo, suggestivamente illustrato dalle belle immagini.
RispondiEliminaLe illustrazioni di Gennaro Vallifuoco - nostro amico - sono dolci e intense, capaci di comunicare tutta la sapienza dell’umano che la maschera custodisce. Grazie di cuore per il commento molto gradito.
EliminaRossana, il tuo bel post è provvida chiave per “ aprire” lo scrigno di Wittgenstein. La sua filosofia, in quel volgere di tempo, carico di molteplici suggestioni e tendenze, svolge , in apparente semplicità temi assai profondi.
RispondiEliminaProveniente da ambiente austriaco, ha il Circolo di Vienna, a confronto, ma la sua logica vuole sfuggire ad una rappresentazione crudamente empirista.
Nell’ambiente inglese, l’incontro con Russell e la filosofia della matematica, è per lui completamento, aiuto e rilancio. Ma neanche la filosofia matematica esaurisce la curiosità di W. e, così, entra in gioco l’amicizia con Sraffa. Complessivamente, tutta la vita di Wittgenstein, forte del legame filosofia-vita, è ricerca continua... ( sono illuminanti : la sua esperienza di insegnante elementare e le sue riflessioni sulla psicologia). Dentro il suo carattere è adombrabile una “ melanconia “, correlata al desiderio, austero ed intransigente, di risolvere il senso sfuggente della vita.
In questo contesto è illuminante l’episodio di Pulcinella per riuscire a spiegare, senza forzature, l’apparente contraddizione tra il primo periodo ed il secondo. Un caro saluto
Caro Rosario, è verissimo - e forse poco conosciuto - il legame tra filosofia e vita in Wittgenstein. Lo attestano, in modo particolare, i "Diari segreti", scritti dal filosofo durante gli anni 1914-1916, quando si trovava sul fronte orientale, arruolatosi come volontario nella Prima guerra mondiale. E' un testo toccante, comparso in edizione italiana per Laterza nel 1987, che conservo con cura. Fatto di annotazioni brevi ed essenziali, rese autentiche dalla condizione di continua esposizione al pericolo: quello di perdere la stessa vita. Un abbraccio.
Elimina"Ciò di cui si può parlare, ci dice poco".
RispondiEliminaCiao Gianni! Hai saputo sintetizzare in un aforisma - che ricalca ironicamente il “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” - un discorso piuttosto lungo. La stessa abilità sintetica delle grattatine di Pulcinella... Un abbraccio.
EliminaGrazie mille.
RispondiEliminaIl ringraziamento è reciproco: è sempre bello condividere pensieri. Un saluto.
EliminaGrazie!!!
RispondiEliminaGrazie a lei che segue con simpatia il nostro blog sin dalle origini. Un caro saluto e buone vacanze estive!
EliminaNon conosco i testi d Wittgenstein e il relativo legame tra filosofia e vita. Ma tu, cara Rossana, sei stata come sempre molto chiara. Interessante e molto eloquente il discorso sul linguaggio gestuale di Pulcinella, insieme alle immagini.
RispondiEliminaGrazie di cuore!!!
Cara Annamaria, ti ringrazio per la lettura e il commento. Ti trascrivo alcune citazioni - che mi sembrano evocative - dai "Diari segreti" di Wittgenstein:
EliminaIeri ho deciso di non opporre alcuna resistenza, di alleggerire per così dire la mia esteriorità, per lasciare indisturbata la mia interiorità (26/08/1914).
La grazia del lavoro (14/07/1916).
Il difficile è vivere nel bene!! Ma la vita buona è bella (30/03/1916).
Per un "ignorante" di filosofia quale mi reputo e sono, in particolare di filosofia del '900, trovo illuminante l'articolo di Rossana. Illuminante e attualissimo in un momento in cui i codici linguistici si stanno trasformando, non so se complicando o eccessivamente semplificando, sotto l'impulso dei nuovi media. La comunicazione mediata, non diretta, perde quella componente della gestualità (la actio della retorica classica ) che aggiunge un plusvalore di senso a ciò che diciamo. Ed è, in fondo, sintomo di quella fine della "relazione" che dovrebbe essere essenza dell'uomo in quanto, aristotelicamente, "animale politico". Mi sembra che oggi sia più che mai attuale il pirandelliano "Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai". Grazie
RispondiEliminaGentile Paolo, grazie per il suo commento, che sottolinea il passaggio della gestualità, fondamentale nella ricostruzione di Tullio De Mauro del percorso che conduce dal "primo" al "secondo" Wittgenstein. Molto interessante è l'attualizzazione relativa all'impoverimento della comunicazione odierna, indiretta, privata del gesto vivo.
EliminaLa filosofia del linguaggio è tutt'altro che una questione semplicemente "tecnica"... Un caro saluto.
Chiara, interessante, illuminante questa rivisitazione del "primo" e "secondo" Wittgenstein. Grazie! Buon fine settimana.
RispondiEliminaIl tuo apprezzamento è molto gradito. Ricambio l'augurio. Un caro abbraccio.
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