Hannah Arendt riceve il premio per il contributo dato alla cultura europea nel 1975, lo stesso anno della sua morte. Ne nasce una riflessione mirabile sul rapporto tra la persona e l'io profondo.
Post di Rossana Rolando.
Hannah Arendt (1906-1975), Premio Sonning 1975 |
Questo passo è ricavato dalla prolusione
tenuta da Hannah Arendt, nel 1975, a
Copenaghen, in occasione del premio Sonning (vedi qui),
conferitole per il contributo dato alla cultura europea. Il discorso, oggi pubblicato
come prologo a Responsabilità e giudizio,
diventa l’occasione per riflettere sul rapporto tra la persona – maschera,
ruolo – e l’io profondo.
Bertrand Russell (1872-1970), Premio Sonning 1960 |
L’unico saldo legame è rappresentato
dalla lingua madre - il tedesco - che ella ha rifiutato di scambiare con
qualsiasi altra lingua perché “le parole che noi usiamo ogni giorno assumono un
proprio peso specifico, quello che ci consente di non cadere in cliché
stereotipati, solo in virtù di quelle certe associazioni che è possibile
stabilire in quella certa lingua, baciata e benedetta da una certa tradizione
poetica”². Quindi il contributo alla cultura europea – riflette la stessa Arendt
- può consistere proprio nella sua fedeltà ad un codice linguistico, che vuol
dire anche adesione ad un modo di pensare e di sentire.
Ingmar Bergman (1918-2007), Premio Sonning 1989 |
Anzitutto, ricevere un’onorificenza è
“una grande lezione di umiltà”, poiché insegna che “non sta a noi giudicare noi
stessi”, “non è in nostro potere” valutare la nostra opera - così come possiamo invece valutare l’altrui
lavoro. Quindi, eventuali meriti debbono essere giudicati dagli altri, se non
si vuole finire in forme di compiacimento narcisistico e mitomane³.
🌟 Ma quel pubblico riconoscimento che cosa
rivela della sua vera identità? La Arendt, all’epoca, ha già scritto molto
sulla “scena pubblica”, come spazio della vita politica (in particolare Vita
activa, del 1958), ma si è tenuta sempre lontana dalla diretta partecipazione
alla dimensione pubblica. Il “bios
theorethikos”, la vita contemplativa, la filosofia richiedono la condizione epicurea del “vivere nascosti” (lathe biosas),
non per sottrarsi alle fatiche della vita politica (come nella lettura corrente
della dottrina epicurea), ma per poter meglio interpretare il pubblico, proprio
grazie ad una distanza critica, tanto più necessaria nel momento in cui “gli
uomini perdono la fiducia nella stabilità del mondo, quando non sanno più quale
sia il loro ruolo nel mondo”⁴. Così ha fatto Socrate insegnando che il pensiero
è un dialogo silenzioso tra sé e sé, un processo di elaborazione interiore che presuppone
solitudine, così hanno teorizzato Heidegger e Bergson mettendo in guardia dagli
stereotipi del “si dice”, “si fa” e dalle abitudini del vivere sociale,
rispetto all’autenticità dell’esistenza davvero pensante⁵.
Eppure quel premio pone la Arendt nel
teatro del pubblico.
Orhan Pamuk (1952), Premio Sonning 2012 |
Sulla risposta a questa domanda si
chiude in modo mirabile il discorso della Arendt che rivendica, rispetto a
qualsiasi maschera, tanto più quella effimera e instabile del successo, le
ragioni dell’io più intimo: “Profondamente onorata e grata a tutti voi per
questo riconoscimento, sarò libera non solo di cambiare il mio ruolo e la mia
maschera nella grande commedia del mondo, ma sarò libera anche di avanzare
sulle tavole del palcoscenico nella mia nuda ‘ecceità’, identificabile spero,
ma non definibile e comunque non sedotta dalla grande tentazione del
riconoscimento che, comunque vadano le cose, può solo farci riconoscere in
questa o quest’altra veste, può solo farci riconoscere per quello che noi,
essenzialmente, non siamo”⁶.
🌟Note.
1. Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010, pp. 10-11.
2. Ibidem, p. 5.
3. Cfr. Ibidem, p. 6
4. Ibidem, p. 8.
5. Cfr. Ibidem, pp. 8 e 9.
6. Ibidem, p. 12.
🌟Note.
1. Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010, pp. 10-11.
2. Ibidem, p. 5.
3. Cfr. Ibidem, p. 6
4. Ibidem, p. 8.
5. Cfr. Ibidem, pp. 8 e 9.
6. Ibidem, p. 12.
Davvero interessante.Grazie.
RispondiEliminaSì, Hannah Arendt è sempre efficace, mai scontata. Grazie del commento! Un saluto.
Eliminasemplicemente splendido
RispondiEliminaUn pensiero - quello espresso dalla Arendt - che rende più liberi. Buona serata.
EliminaGrazie del contributo interessante che mi fa davvero pensare.
RispondiEliminaViviamo in un’epoca in cui molti tendono a mettersi a nudo senza più pudore, mettendo in piazza anche le vicende più intime alla ricerca di un riconoscimento o forse come forma di autocompiacimento, autocommiserazione, o meglio ancora come espediente per attirare l’attenzione su di se.
Tutto ciò ci fa rimanere alla superficie e manifesta lo svuotamento del sè. È il vuoto che fa paura!
Grazie a te cara Patrizia per aver sottolineato così bene il rischio di uno svuotamento dell'io profondo, che dovrebbe trovarsi al di là delle maschere via via assunte "nella grande commedia del mondo". "La verità ama nascondersi"... bisognerebbe impararlo di nuovo, educando alla riservatezza, al pudore, alla dilatazione interiore, in un tempo nel quale - come tu dici - tutto viene messo in piazza ed esposto, in nome di una franchezza che divora la sfera dell'intimità. Ti abbraccio forte.
RispondiEliminaLa spiegazione etimologica della parola "persona" che la Arendt collega giustamente alla maschera e al verbo "per-sonare", mi fa venire in mente un riferimento - letto tempo fa e di cui purtroppo non ricordo la fonte - secondo il quale il termine è legato anche al famoso affresco del "Suonatore di doppio flauto" della Tomba dei Leopardi a Tarquinia. Il personaggio raffigurato infatti "personat", fa risuonare una musica attraverso il flauto. E mi fa pensare al fatto che la persona sia proprio lo strumento, il canale attraverso cui risuona e si diffonde una scintilla divina. Insomma...siamo strumenti musicali! Ipotesi forse fantasiosa ma affascinante!
RispondiEliminaGrazie di tutto Rossana e un abbraccio grande!!!
[img]https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/92/Danseurs_et_musiciens%2C_tombe_des_l%C3%A9opards.jpg/800px-Danseurs_et_musiciens%2C_tombe_des_l%C3%A9opards.jpg[/img]
EliminaMa che bella questa idea della persona come strumento di un suono che viene dal profondo, senza spaccature tra dentro e fuori, tra interiorità ed esteriorità e, d'altra parte, senza perdita di ciò che è intimo e nascosto. Grazie Annamaria del tuo contributo, sempre originale e gradito. Un grande abbraccio.
Grazie per l’articolo ,davvero molto interessante, e ringrazio anche i commentatori che mi hanno mostrato ulteriori possibili spunti di riflessione. Quando manca questo rapporto, questo dialogo continuo tra persona e io profondo si perde la capacità di essere generativi. Si resta imprigionati dentro se stessi, come dice Patrizia, preoccupati del vuoto da colmare. Proprio nel gioco di nascondimento e rivelazione di sé e della propria intimità, verso la quale occorre mantenere un atteggiamento di grande pudore, si preserva l’io profondo. Scusate se ho saltato qualche passaggio , io credo che questo dialogo con l’io profondo sia un’opera relazionale, di apertura, di libertà generativa. Un caro saluto a tutte e tutti voi.
RispondiEliminaMi sembra molto interessante l'accento posto sulla "capacità di essere generativi", fondata sul "dialogo silenzioso tra sé e sé" (direbbe la Arendt). Non so se interpreto bene affermando che solo il pensiero - l'io profondo - può permettere di essere davvero liberi, non intrappolati nella molteplicità delle maschere che il mondo ci attribuisce o che noi stessi assumiamo di fronte agli altri. Grazie per aver lasciato questa intensa riflessione. Un caro saluto.
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