Il socratico due in uno - ovvero il dialogo interiore di sé con sé - come condizione dell'essere autentico (volto e non maschera).
Post di Rossana Rolando
Walter Crane (1845-1915), Socrate decide di bere la cicuta |
Tra i “materiali” che hanno dato
l’incipit agli esami di stato 2020 torna alla mia mente questa citazione molto
nota e particolarmente suggestiva di Luigi Pirandello: “Imparerai a tue spese che
nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.
Il significato è presto intuibile. La
maschera rimanda all’esteriorità, il volto richiama l’interiorità, quale identità
autentica che solo pochi sanno preservare, conciliando l’apparire con l’essere.
Tuttavia, ciò che è immediatamente ovvio
si complica non appena si pretenda di scavare un poco oltre la superficie.
Infatti, che cosa significa essere
autentici? E ancora, chi afferma di voler essere se stesso/a che cosa intende
veramente? E infine, quando si è se stessi?
Il rischio di identificare l’autenticità
con l’immediata e impudica spontaneità che mette in piazza ed esteriorizza
tutto, senza maschere e mediazioni, è fin troppo evidente.
Otto van Veen (1556-1629), Socrate e Santippe, incisione |
Filosoficamente il concetto di identità
si è andato indebolendo, tanto che risulta oggi difficile utilizzare i termini tradizionali
di “soggetto”, “anima”, “sostanza”, “essenza”. Le argomentazioni
antimetafisiche e relativistiche che provengono da una parte della stessa filosofia,
dalla psicoanalisi e dalle neuroscienze hanno via via svuotato il nocciolo duro
dell’identità, riducendo la coscienza in generale ad un epifenomeno del cervello e la coscienza morale alla “voce del gregge nel singolo”,
come direbbe Nietzsche.
In questo orizzonte la mente è, per un
verso, l’eco di processi cerebrali e, per l’altro verso, il risultato dell’ambiente,
dell’educazione, delle esperienze che hanno accompagnato il percorso
esistenziale di ciascuno.
A questa visione riduttiva, che chiude la
dimensione spirituale all’interno di meccanismi deterministici, resiste un’altra
parte della filosofia, così come molta letteratura, arte e poesia.
Autore sconosciuto, Socrate, 1655, in Thomas Stanley, Storia della filosofia |
Tra le possibili teorie relative all’io
e alla sua identità, trovo ancora convincente e utilizzabile oggi la concezione
socratica del soggetto, visto come “due in uno”. E’ Hannah Arendt, ancora una
volta, ad aver sottolineato questo acquisto che può durare oltre la crisi del
soggetto (inteso nei termini forti di anima o sostanza), permettendo di parlare
ancora di coscienza nel duplice significato di consapevolezza di sé (in senso
generale) e delle proprie azioni (in senso etico).
Il rischio di una frantumazione della
soggettività viene superato tenendo insieme - nel movimento del pensare - la
pluralità con l’unità. Ognuno di noi, “essendo uno”, può parlare con se stesso
come se fosse due. Perciò, scrive la Arendt: “anche se dovessi vivere
completamente da solo, vivrei, per tutto l’arco della mia vita, nella
condizione della pluralità; dovrei pur sempre stare con me stesso, e non c’è
luogo in cui questo “io-con-me-stesso” si mostri così chiaramente come si mostra
nel puro pensiero, che è sempre un dialogo tra i due che io sono”¹.
L’identificazione di coscienza e pensiero, inteso come dialogo interiore di sé
con sé, permette di dare consistenza all’interiorità – luogo in cui il due è
uno e viceversa - e di aprire anche un discorso sul piano etico.
Anonimo, Il demone socratico, data sconosciuta |
La questione è posta con totale
chiarezza nel saggio “Socrate”. Si tratta di valutare se è possibile, anche in
un contesto puramente secolare, non sorretto dalla fede in Dio e nel giudizio
finale, parlare di coscienza morale: «il problema è capire se un’azione buona,
come per esempio l’azione giusta, rimanga tale anche “qualora resti ignota e
nascosta agli uomini e agli dei”».²
Se la stoffa della coscienza è il
pensare, allora il giudizio su ciò che è buono e giusto è interno all’uomo,
purché egli accetti di riflettere e di
essere testimone di sé stesso, inteso quest’ultimo come l’altro in sé: “appari
di fronte a te stesso così come vorresti apparire se altri ti vedessero”³.
Su questa stessa concezione del “due in
uno” - una convivenza con se stessi che non può essere in nessun modo evitata - si fonda anche
la possibilità di rifiutare il male: “La ragione per cui non devi uccidere,
neanche quando nessuno può vederti, è che non è possibile che tu voglia vivere
con un assassino; e che invece, commettendo un omicidio, ti consegnerai per
sempre alla compagnia di un assassino”⁴.
In
quest’ottica la solitudine del pensiero è la dimensione su cui si costruisce la
possibilità di una convivenza politica, in quanto luogo in cui le regole
imposte con la legge e nel timore della punizione trovano la loro migliore
garanzia nel tribunale della coscienza⁵, in cui ciascuno “rende conto a
se stesso di sé e si giudica”⁶.
Note.
1. Hannah Arendt, Socrate, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2015, p. 42. “E’ la compagnia degli altri, infatti,
che, nel distogliermi dal dialogo del pensiero, torna a rendermi uno – un
essere umano singolo, unico, che parla con una sola voce, e che gli altri
possono riconoscere come tale” (p. 42).
2. Ibidem, p. 43.
3. Ibidem, p. 43.
4. Ibidem, p. 43-44. “Per sempre”, dal momento che “Il sé è l’unica persona da cui non posso separarmi, che non posso lasciare, a cui sono saldato” (p. 42).
5. Cfr. Ibidem, pp. 45-46.
6. Ibidem, p. 93.
2. Ibidem, p. 43.
3. Ibidem, p. 43.
4. Ibidem, p. 43-44. “Per sempre”, dal momento che “Il sé è l’unica persona da cui non posso separarmi, che non posso lasciare, a cui sono saldato” (p. 42).
5. Cfr. Ibidem, pp. 45-46.
6. Ibidem, p. 93.
La maschera è identificabile con lo straniero che vive dentro di noi. Freud lo spiega molto bene. L'incoscio è un territorio straniero inerno.Prima di tutto dobbiamo cercare di convivere con lo straniero che c'è dentro di noi. L'uomo si ammala quando,anzichè accogliere e integrare questo straniero innalza bariere.Il confine tra i due soggetti è minimo.Quando diventa troppo rigido e non esiste scambio tra i due la vita diventa inutile.Al contrario abbattere completamente il confine produce solo confusione perchè l'altro diventa solo un invasore costringendoti ad indossare la maschera di cui parla Pirandello fino a quando non avrai più il coraggio di levarla.
RispondiEliminaGrazie del riferimento alla lettura freudiana della maschera che mette bene in luce la difficile convivenza del soggetto consapevole con la dimensione inconscia, quella pulsionale e quella normativa. Con Freud tuttavia mi pare si rimanga stretti in un determinismo (delle pulsioni che ci abitano e dei doveri introiettati dall'esterno) che lascia poco spazio alla dimensione coscienziale ed etica, come esercizio di riflessione dialogante di sé con sé e come interrogazione su ciò che è bene.
RispondiEliminaBuona serata.
Rossana hai inteso proporre una riflessione sulla coscienza, che va ad articolarsi in diversi rami. Nel primo, il respiro spirituale della coscienza, che amplifica la qualità morale. Ne discende la prosecuzione nel solco cristiano fino al l’anima ( Socrate sarà letto come un santo laico). Nell’altro, la comparazione con l’identità, ne verifica la eterogeneità, visto che identità induce al mondo delle apparenze. Un abbraccio 🤗
RispondiEliminaAbbiamo ancora tanto bisogno di Socrate. Come dice Adriana Cavarero nel saggio critico che accompagna l'edizione Raffaello Cortina del Socrate di Hannah Arendt: "l'attitudine al confronto interiore, alla verifica della propria condotta e dei propri criteri morali, che scopre la dualità insita nell'attività del pensiero, è per Arendt il lascito socratico più prezioso contro la banalità del male. Ed è non a caso, al contempo, la scoperta della coscienza come effetto di un'attività che, proprio in grazia dell'interno interrogarsi e rispondersi, mette in discussione ogni cliché e si rivela perciò strutturalmente antiautoritaria e anticonformista" (p. 92). Un abbraccio a te.
RispondiEliminaDel pensiero della Arendt mi colpisce il fatto che l' essere "due in uno" salva anche da quella solitudine che è semplice vuoto o nonsenso, e al contrario valorizza la bellezza di quella solitudine che si fonda sulla ricchezza interiore e che permette poi di dialogare con gli altri.
RispondiEliminaGrazie, cara Rossana, e buona serata!!
Cara Annamaria, è molto acuta questa tua osservazione, in linea con l'autentico pensiero della Arendt che ho cercato di esprimere in questo post e che emerge ancora in queste brevi frasi: "la vita insieme agli altri comincia con la vita insieme a se stessi"... "chi sa vivere con se stesso è capace di vivere con gli altri"... "l'amico - secondo Aristotele - è un altro se stesso"...
EliminaGrazie per la tua lettura attenta e sensibile. Un caloroso abbraccio.
Cara Rossana, mi ritrovo parecchio nelle riflessioni che proponi. Il prof. Giovanni Salonia, psicoterapeuta, parla di "traità" nel senso di continuo dialogo interiore "tra" me e me. Che è poi la considerazione della Arendt: "non c’è luogo in cui questo “io-con-me-stesso” si mostri così chiaramente come si mostra nel puro pensiero, che è sempre un dialogo tra i due che io sono”. Grazie! Un abbraccio affettuoso.
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