Il rifiuto della fragilità, messo in luce anche dall'attuale pandemia.
Post di Gian Maria Zavattaro
Immagini delle illustrazione di Owen Gent (qui il sito instagram).
Owen Gent, Isolamento covid |
Edito in Italia nel febbraio 2021, il saggio di Byung-Chul Han, importante filosofo contemporaneo, inizia con “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei” (1).
Il “rifiuto collettivo della nostra fragilità” in questo nostro tempo di covid è reso ben evidente dalla diffusa sordità cecità indifferenza, e anche cinismo, di fronte alla miriade di dolori e sofferenze che pervadono gli altri. Quanti di noi, in questo tempo di covid, si sentono soverchiati, quasi dilaniati, dalle notizie di continue tragedie individuali e collettive? Non mi riferisco solo alle morti dovute al covid, per quanto ancora tremendamente falcidiante ed assordante.
Mi riferisco alle stragi di ataviche malattie divenute silenti a causa del virus imperante, ai morti sul lavoro, ai migranti annegati, ai “residui di umanità” morti disperati per fame sete, alle vittime di femminicidio, ai bambini-soldato morti combattendo, alle famiglie dilaniate da bombe prodotte e vendute da paesi “civili”, il nostro compreso. Mi riferisco alle donne offese e stuprate, alle violenze torture ovunque perpetrate, ai paesi impotenti a difendersi dal depauperamento spogliazione desertificazione inquinamento della propria terra acqua aria, e tanto altro ancora…
Owen Gent, Caduta |
Da una parte il dolore universale dall’altra l’“anestesia permanente”.
L’epoca odierna, scrive Han, è segnata da una radicale algofobia, paura generalizzata del dolore, che al contempo è tanatofobia, paura altrettanto diffusa della morte. Ne deriva “l’anestesia permanente”, intesa ad eliminare in ogni modo il negativo, ovvero il dolore e la morte. I termini (in grassetto) usati da Han denunciano la “farmacologizzazione”, dominante processo volto a evitare ogni sofferenza fisica e psichica, sociale e culturale (2). L’anestesia permanente estesa nell’ambito sociale non dispiace affatto al capitalismo neoliberistico, perché “aumenta la spinta al conformismo e la pressione del consenso” (3). Nella “società della prestazione” la democrazia “palliativa” si vale dell’algofobia come analgesico politico: il dolore è bandito perché negativo, scandalo, debolezza. È il trionfo della “società del mi piace”, del “nulla deve più far male”, del like, vero analgesico della contemporaneità (4).
Owen Gent, Conversazioni sulla vita e sulla morte |
Owen Gent, Anticovid |
La sensibilità nei confronti dell’altro presuppone una esposizione, sino alla sofferenza che è dolore dell’altro che percepisco come mio. Questa ferita che fa male è apertura primordiale verso l’Altro. E’ la nudità dell’anima di cui parla E. Canetti: mancanza di protezione che dinanzi all’Altro ci rende vulnerabili, nudità responsabile della inquietudine che ci fa mettere nei panni dell’Altro, rende impossibile l’indifferenza, si esprime in forma di angoscia per gli altri e m’insegna chi sono.
Nudità dell’anima, esposizione, dolore per l’Altro: ciò che oggi viene a mancare. “Senza il dolore verso l’Altro non abbiamo accesso al dolore dell’Altro” (9).
❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋❋
Owen Gent, Tramonto |
Il covid non ci costringe ad essere in combutta con i narcisisti festaioli, gaudenti alla faccia di tutti, né con i rinchiusi in volontaria clausura contro ogni minaccia altrui e neppure con coloro che gridano la loro abitudinaria compulsiva insoddisfazione, avidi di violente adunate contro le modalità di stare oggi al mondo. Tristezza infinita, struggenti patetiche proteste.
Owen Gent, Raduno |
Sacralità del tempo a disposizione per Dio se credenti, per se stessi, per gli altri.
- A disposizione di Dio nell’intreccio di fede-speranza-carità, nell’invocazione e preghiera (straordinario momento vitale per ogni credente), nell’ascolto della Parola, per me cristiano nell’Eucaristia, nello stupore catartico di rinnovata gioia della vita
- A disposizione di se stessi per ri-trovarsi e ri-orientare la propria vita: come liberazione dall’ansia per ciò che succede intorno a noi e nel mondo; come ri-creazione di ciò che è autentico, dell’’arte, poesia, musica, bellezza….
Owen Gent, Sul tetto |
Ogni giorno ha un inizio e una fine: richiama la nostra finitudine, la consapevolezza che ogni giorno rimane sempre un abbozzo, ma insieme presagio di una nuova alba, attesa della “gioia dell’Interminabile: “Quello che insidia ed avvelena in genere la nostra felicità è di sentire così vicini il fondo e la fine di tutto quanto ci attrae: sofferenza delle separazioni e dell’usura, angoscia del tempo che passa, terrore davanti alla fragilità dei beni posseduti, delusione di giungere tanto presto al termine di quello che siamo e che amiamo. Tutte queste ombre svaniscono nelle “confidenze” degli uomini e delle donne che hanno rischiato se stessi in una realtà che li sorpassa , in cui si scopre la “gioia dell’Interminabile” (11).
Note.
1. Riporta l detto di E. Jünger, o.c. p.5. Le citazioni di Han, che via via riporto nel corso del post, non significano piena condivisione di tutte le sue tesi. Vogliono semplicemente evidenziare riflessioni di rilevanza indubbia rispetto alla comprensione del presente e del futuro prossimo. A un anno di distanza dalla pubblicazione, non tutto quanto esposto mi risulta convincente ed alcune pagine, da me volutamente trascurate, mi lasciano alquanto perplesso (cfr. ad. es. pag.23 e parte del capitolo finale “l’ultimo uomo” pp.73-80). In particolare non mi pare convenientemente esplicitata “l’ontologia del dolore” la cui concezione affida alla coscienza e discernimento di ogni lettore e rinvia ai passi riportati di Heidegger, Nietzsche, Jünger ed altri. Rimangono in ogni caso pungenti e decisivi i suoi interrogativi e le sue provocazioni.
2. C’è un indubbio nesso tra rifiuto della morte e rifiuto del dolore, legato anche all’istinto di conservazione per vivere il nostro ciclo di vita senza l’opprimente angoscia del morire: utile, se non necessaria, “leggerezza metafisica”. Oggi però la questione non riguarda solo il non vivere più “al cospetto della morte”, ma il rimuovere in toto la nostra fragilità esistenziale dalla nostra stessa coscienza alla quale è ben presente la certezza della morte, anche se si oscura nella consapevolezza annebbiata di dovere un giorno morire, senza alcun rapporto emotivo con la sofferenza che dilania il nostro mondo.
Owen Gent, Varianti del virus |
4. cfr. o.c, pp.5-9. Oggi viviamo nella società del consumo che rende ogni cosa consumabile persino nei confronti delle immagini di violenza dei film e videogiochi che rendono addirittura l’atto di uccidere una circostanza priva di dolore e sortiscono l’effetto di un anestetico e ci rendono insensibili nei confronti del dolore altrui. Così pure l’eccesso di immagini di dolore e violenza nei massmedia e in rete ci costringe alla passività e indifferenza. La loro massa è tale che non riusciamo ad elaborarle, s’impongono alla percezione ma non emana più l’imperativo morale dell’attenzione intensa, del coinvolgimento che grida ponigli fine intervieni agisci: è la perdita crescente di empatia che rimanda all’Altro che sta scomparendo e all’Altro che in forma di oggetto non fa male. In tempo di pandemia il dolore degli altri scompare ancor più in lontananza, si disperde nella conta e nei numeri dei casi. Il distanziamento sociale rafforza la perdita di empatia, si trasforma in distanziamento mentale. Cfr. pp.68-69. Sotto l’influsso della coazione al consumo, consegue la mercificazione della cultura arte poesia letteratura cinema musica… che assumono la forma che le renda consumabili e cioè “compiacenti”. La nuova forma di dominio recita “sii felice e libero” e non si è consapevoli che la propria schiavitù è credere di essere liberi. “Il sii libero” crea una costrizione più disastrosa del “Sii obbediente”(p.16).
4. Citando Victor von Weizsacke, Han insiste sulla verità del dolore che è il divenire carne di una verità La società palliativa è una società senza verità, un inferno dell’Uguale. Il dolore è affidabile criterio di verità e appare dove è minacciata una reale appartenenza. cfr. p.42.
5. o.c., p.22 “il virus è lo specchio della nostra società, evidenzia che la società palliativa si rivela società della sopravvivenza”
6. o.c., pp.23-27
7. o.c., pp.60-61-65
8.o.c. pp. 53-54-64
9. o.c., pp.71-72
10. “La vita priva di dolore e munita di costante felicità non sarà più una vita umana. La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina se stessa. La morte e il dolore sono fatti l’uno per l’altra. Nel dolore la morte viene anticipata. Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita.” pp.78-79
11.Theillard De Chardin, Rèflexions sur le bonneur, éd. Du Seuil, Paris, 1960, p.65.
Nessun commento:
Posta un commento