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sabato 11 giugno 2022

Pensiero e spazio.

Pensiero e dimensioni spazio temporali.
Post di Rosario Grillo.
 
Kandinskij, Ferrovia, 1909
In fisica si è passati con grande fatica dallo spazio assoluto alla relatività dello spazio; poi, di seguito, si sono “agitate le acque” per un rapido succedersi di cambiamenti che hanno portato alla fisica dei “quanta”.
Altrove avevo già sondato il terreno della congiuntura culturale, tra fine ottocento e l’inizio del 900, per ricavarne la pregnanza della questione (arte, letteratura, filosofia, antropologia). Oggi mi concentro sulla relazione che si instaura tra il pensiero e lo spazio e dichiaro, a scanso di equivoci, di essere stato provocato da un insegnante di letteratura russa attento al tema della relazione. (1)
In questa prospettiva - semplifico - lo spazio incide sul pensiero, disponendolo alla cura della relazione. Molte situazioni ci convincono che il nostro atteggiamento mentale, con il conseguente flusso di pensieri, è influenzato dal luogo nel quale ci troviamo. La traduzione di ciò, allora, diventa il riconoscimento dello spazio come schermo (filtro) attraverso il quale pensiamo. Vale la pena dedurre, da tutto ciò, la vitalità del pensiero: ovvero, il pensiero è qualcosa di vivo, si muove non nell’Olimpo dell’astratto ma nel concreto dell’esistere.
È necessario anche stabilire il legame spazio-tempo. Solitamente li consideriamo associati. Si può riflettere quindi sul peso che ha esercitato il tempo nella formulazione della einsteiniana legge di relatività (1916); ma soprattutto si potrebbe andar dietro alla differenziazione Occidente-Oriente, riconoscendo nel primo il primato del “tempo” e nel secondo quello del “filtro spazio”. Questa dicotomia è parecchio diffusa, basata su distinte peculiarità: in Occidente prevale il pensiero razionale, che va più per l’esterno, e in Oriente prevale il sentire intuitivo, che va più per l’interno.
In molte occasioni, in certi passaggi di epoca culturale, si è prevalentemente utilizzato il codice dello schematismo geografico, dal quale il succitato distacco Occidente-Oriente si è giovato.
Maciej Bielawski ha insistito però - secondo me con ragione - sulla convenienza - ed è rilievo ontologico - a concepire interno a ciascun atto del pensare l’incidenza, con l’alternarsi e confluire nel tempo e nello spazio.
Disposti in questo modo, apriamo il pensiero al vasto campo delle emozioni. (2)
 
💥La filosofia del ‘900 fa i conti con lo spazio.
Kandinskij, Improvvisazione, 1917
Comincio da Heidegger e, tramite lui, dal peso che la categoria tempo esercita sulle problematiche filosofiche. Per Heidegger, molto semplicemente, il tempo è indice dell’ “esserci” dell’uomo e, su questa via, dell’ “ essere per la morte”.
Heidegger ha avuto come maestro Husserl, poi se ne è distaccato. Husserl aveva rivisitato la fenomenologia, legandola ancora di più al divenire della coscienza, operando al contempo per correggere il dualismo cartesiano (res cogitans e res extensa). Siamo così arrivati al cuore della confluenza spazio/tempo: nella coscienza, per essenza flusso temporale (Bergson), sono compresenti, in quanto la coscienza è organo della spazializzazione della mente ed è testimone del suo durare nel tempo.
Un teorico della politica aveva, in quel frangente, posto ad oggetto del suo studio il concetto di spazio, per ricavare nuova autonomia alla politica (rivendicazione dei requisiti scientifici): Carl Schmitt.
Egli si proponeva di allontanare la politica dalla teologia (3);s i avvaleva della categoria di spazio - la Terra - come cornice quadro del nomos. Il pensiero di Schmitt, spesso pregiudizialmente discriminato per la sua adesione al nazismo, indubbiamente propende verso una critica forte del sistema parlamentare, motivata da una decisa richiesta di rinvigorimento della auctoritas (Imperium).
Si muove in questo orizzonte, ponendosi come obiettivo l’indicazione dello “stato di eccezione” complementare alla decisione. (4)Consegue la nozione di nemico: termine di confronto reale per raggiungere la messa a punto dello Stato reale, non immaginario o ideale, tutt’uno con la costituzione che non è predeterminante, ma si costituisce insieme. Schmitt prendeva decisamente una strada diversa dal giusnaturalismo positivo che aveva in Kelsen il suo alfiere e, come già si nota da questi essenziali concetti, si porta fuori dal liberalismo e dalla democrazia.
Fondamentale, però, disporre questa tessitura non nell’angolazione individuale o locale (angustamente nazionale) ma in quella globale, estesa per l’intero mondo.
 
💥Kojeve.
Kandinskij, Centro, 1924
Quest’ultima conclusione può servire per inquadrare il punto di contatto tra il russo Kojeve, naturalizzato francese (5), e il tedesco. Il primo, più giovane, dopo essersi formato alla scuola di Jaspers, poté godere della simpatia di Koyré ed avere l’occasione per sostituirlo nell’incarico alla cattedra di Filosofia delle religioni. Fu in quell’occasione che si confrontò con la filosofia hegeliana, tenendo i famosi corsi sulla Fenomenologia dello spirito. (6) Kojeve, che già portava in seno i temi della dottrina di Marx, lesse la fenomenologia esclusivamente sulla base della dialettica servo-padrone; ricavò, rielaborandola, una contestazione della meta ideal-spirituale della filosofia della storia hegeliana e ne suggerì una risoluta immanentizzazione dentro il confine dell’esistenza.
Diventa centrale, perciò, la condizione finita dell’umano: il lavoro, la morte. La libertà, peculiarità umana, deve fare i conti con questi limiti.
C’era una sorta di affinità con Heidegger, soprattutto legata alla condizione mortale attribuita all’essere umano. Ma Kojeve tiene ben presente il divenire dialettico di Hegel, lo filtra con il concetto di angoscia di Kierkegaard e ne ottiene la valorizzazione attiva della liberazione umana. Essa avviene nella lotta angosciosa per reagire alla morte, tra limite e sofferenze, trascinata dalle ali del desiderio.
Messa in chiaro la conservazione dell’esito finale: la fine della storia, si può mettere a fuoco quanto di comune c’è tra Kojeve e Schmitt. Innanzitutto l’amicizia. Kojeve cioè, pur consapevole delle differenze, non ruppe mai la corrispondenza con Schmitt. (7) La concordanza è soprattutto sulla presenza incisiva dello spazio nella condizione storica. Da qui in Kojeve derivò il rilievo che egli diede al fordismo e le correzioni che propose al colonialismo.
Convinto dalla socialdemocrazia (Bernstein), che aveva osservato la caduta della tensione rivoluzionaria nel proletariato investito dal miglioramento reale delle condizioni di vita, egli vide nel fordismo il superamento del capitalismo. Il plusvalore, in questo sistema, non veniva privatizzato dal singolo imprenditore ma socializzato attraverso l’aumento dei salari; cosa che apriva ad un tenore di vita affrancato del proletariato. Così Kojeve scandalosamente riconosceva il capitalismo, piuttosto, nel regime sovietico, dove, fallito l’obiettivo della uguaglianza, il plus valore della super produzione era incamerato dalla élite del partito.
Kandinskij, Salita turbolenta, 1924
Date queste trasformazioni, il pensatore russo poteva concentrarsi sul colonialismo e proporre delle modifiche. Bisognava uscire dal colonialismo appropriativo (gli Stati Uniti, più degli altri, ne erano intaccati, mentre l’Inghilterra e la Francia già iniziavano a muoversi diversamente), svoltare in favore del colonialismo dativo. In esso prendeva forma il dono, che avrebbe finito per avere la stessa capacità emancipatrice del fordismo.
Il sistema risultava così articolato: i paesi colonizzatori, con gli indennizzi, avrebbero permesso un maggior incremento di ricchezza nelle colonie, o avrebbero investito il profitto (surplus) favorendone il progresso. Un altro rimedio ancora, per il vecchio capitalismo, avrebbe potuto essere il sistema dei vasi comunicanti: ovvero le colonie che riuscivano ad incrementare le risorse si disponevano ad aiutare le colonie più arretrate e povere. (8)
Fatta l’esplorazione - alla cruda prova dei fatti - appariranno utopiche le raccomandazioni del filosofo russo; ma - c’è da osservare - soltanto l’insipienza della politica mondiale, chiusa l’epoca della guerra fredda, è stata motivo del rifiuto di tale possibilità.
Urgeva la ripresa dei principi del liberismo in forme più aggressive, intriso di addentellati che avrebbero portato al predominio del settore finanziario. È la desolante realtà del momento presente.
 
💥 Note.
(1) Maciej Bielawski, che insegna all’università di Macerata, versa la sua vasta conoscenza della cultura dei paesi dell’Europa orientale nella cura e nell’approfondimento dell’etica della relazione.
(2) Bielawski deve molto al pensiero di R. Pannikar.
(3) Curioso! Nel momento in cui operava questa separazione, imbeveva di teologia la scienza politica.
(4) “L’eccezione è più importante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” (Teologia politica 1922).
(5) Si controlli la biografia di Kojeve su Wikipedia (voce Kojeve).
(6) Quei corsi furono seguiti dal fior fiore della nuova generazione di filosofi (Merlau-Ponty, Deleuze, Guattari, Bataille…)
(7) È opportuno rinviare ancora alla biografia ed evidenziare i segni lasciati dal suo percorso: rivoluzione bolscevica, persecuzione e confino, ma anche una sorta di risorsa pragmatica che lo spinse a dedicarsi, negli anni parigini, alla diplomazia, ai temi dell’economia, ad accettare compromessi.
(8) Nell’economia di questa presa di posizione, è degna di nota la critica che egli faceva al sistema abituale degli aiuti umanitari, considerandoli inutili e controproducenti. Con questa critica concorderà il premio Nobel dell’economia, A. Deaton.

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