a cura di Rossana Rolando
(per la presentazione di questo lungo articolo,
di carattere filosofico,
si rimanda al post precedente:
La Resistenza di Luisito Bianchi).
« …La Resistenza è un fatto di gratuità.
La vera: la Resistenza al potere, non per instaurare un altro potere ma per la libertà dell’uomo.
Per questo Resistenza è Gratuità, e Partigiano l’uomo gratuito.
Il Dio gratuito non è forse il Dio Partigiano,
che prende le parti di chi, in un modo o nell’altro,
è perseguitato dal potere?»
La vera: la Resistenza al potere, non per instaurare un altro potere ma per la libertà dell’uomo.
Per questo Resistenza è Gratuità, e Partigiano l’uomo gratuito.
Il Dio gratuito non è forse il Dio Partigiano,
che prende le parti di chi, in un modo o nell’altro,
è perseguitato dal potere?»
Luisito Bianchi
(da Monologo partigiano sulla Gratuità)
(da Monologo partigiano sulla Gratuità)
Il XX secolo ha
interrogato profondamente la coscienza dell’uomo contemporaneo e per chi, dopo
Nietzsche, non ha rinunciato al concetto di Dio, ha posto domande brucianti sul
silenzio e l’assenza di Dio, sull’impotenza di Dio nei confronti del male, rendendo
problematico il pensiero secondo cui Dio è il signore della storia,
l’eterna Provvidenza che garantisce un senso alle vicende degli uomini.
Per questo le teologie e
le filosofie della storia, che tanta parte hanno avuto nella cultura
occidentale – da Agostino fino ad Hegel – sono avvertite oggi come
insufficienti, “superate”. Altre prospettive, altre vie debbono aprirsi,
affinché il discorso possa continuare. E’ questa la lezione di autori
provenienti dall’area ebraica, quali Wiesel e Jonas, Adorno e Lévinas, i cui
contributi risultano fondamentali per una riproposizione del concetto di Dio
“dopo Auschwitz”, simbolicamente considerato come spartiacque ineludibile[1].
Ed è in questa ottica che
intendiamo riflettere con Luisito Bianchi, a partire da La messa
dell’uomo disarmato[2]. E’ difficile definire il genere cui appartiene questo libro.
Certo romanzo storico che si svolge nel periodo della seconda guerra mondiale,
delle due guerre – di cui fa memoria Nuto Revelli: quella del fascio accanto ai
tedeschi e quella partigiana contro fascisti e tedeschi[3] -, ma soprattutto romanzo sulla resistenza, come recita il
sottotitolo.
... dov'era Dio nella notte del male? ... (Marianne von Werefkin, Donna con lanterna) |
Eppure nell’ambito della
ricchissima letteratura della resistenza, da B. Fenoglio a C. Pavese, da I.
Calvino ad A. Gobetti, questo libro costituisce anche un unicum[4]. Si riaggancia per certi versi al romanzo popolare, nella
linea manzoniana degli umili protagonisti della storia, di una storia vista dal
basso, dal popolo, in una coralità che senza sbiadire la fisionomia propria di
ogni personaggio, la inserisce in un tessuto di relazioni inclusive, solidali,
il cui centro propulsore e aggregatore è rappresentato dalla “Campanella”, una
cascina in mezzo alla piana padana[5]. E manzoniana è anche la vena ironica che accompagna alcuni
quadretti di vita popolare e alcune figure.
Ma anche romanzo d’intensa
liricità, con una «potente poetica della terra», come afferma a ragione
l’editore, e descrizioni che solo chi conosce profondamente la terra e le sue
liturgie può suggerire.
... attraverso un grande romanzo popolare... d'intensa liricità... (Marianne von Werefkin, Paesaggio fantastico) |
E poi romanzo della
memoria che trasfigura, ricrea e attualizza (tempo-kairòs), ben oltre la
semplice e muta registrazione dei fatti (tempo-chronos) [6]: per cui a partire da vicende realmente accadute e da
personaggi realmente vissuti, si snodano le vicende come dovevano accadere e i
personaggi come chiedevano di vivere. E la vera realtà diventa quella della
memoria: quello che è, è quello che doveva essere, è quello che la memoria fa
accadere.
E ancora romanzo sul senso
della vita e della morte, sulle ragioni per vivere e per morire, sul
prezzo da dare alla vita e soprattutto alla morte. Sì, per molti versi La messa potrebbe essere definita una sorta di itinerarium mentis in mortem
o di meditatio mortis, con un legame misterioso e profondo fra vivi
e morti, di cui si fa interprete il personaggio che a un certo punto viene
definito come il principale – forse – del grande avvenimento: Rondine, «che
parlava coi morti per voler bene ai vivi»[7].
Infine anche romanzo
teologico, in cui la resistenza viene interpretata in chiave biblica[8], senza nulla togliere alla laicità dell’evento. La resistenza
diventa il “grande avvenimento”, il luogo in cui la Parola si racchiude in modo
privilegiato. E il libro infatti si scandisce in tre tempi: il gemito della
Parola, il silenzio della Parola e lo svelamento della Parola. E’ soprattutto
questa intelaiatura teologica che rende il libro un unicum nel panorama
della letteratura resistenziale ed è su questo che vogliamo soffermarci, perché
tocca da vicino i problemi da cui siamo partiti: Dio e la storia; il mistero
del male; la teologia e l’antropologia dopo Auschwitz ovvero dopo la furia
nazista, diventata cifra ed espressione del male nel suo volto più radicale e
disumano, portato fino ai campi di sterminio.
Il libro di Luisito
Bianchi, come si è detto, sfugge alle interpretazioni filosofico teologiche
della tradizione.
... nel mistero dell'esistenza ... (Marianne von Werefkin, Dramma dell'anima) |
In primo luogo non è il
Dio dei desideri o la dialettica storica che garantisce un senso globale agli
avvenimenti. Il mondo nuovo che viene intravisto e sognato da chi resiste non
si realizzerà. Eppure l’escatologia è già dentro la storia: il novum è
quello che viene vissuto da chi resiste, è la gratuità dell’amore che
trasfigura e realizza l’umano.
In secondo luogo non viene
riproposta nessuna teodicea nei termini tradizionali della metafisica. Le
classiche domande della teodicea – perché Dio permette il male; in che modo si
giustifica il dolore dell’innocente; come si concilia il Dio buono con la
presenza del male nel mondo – non compaiono mai. Neppure di fronte all’assurda
morte del padre schiacciato dal trattore che il piccolo Luca guida per gioco o
al bambino di tre anni atrocemente ucciso dai tedeschi che ossessiona la mente
di Stalino o alla morte del giovane Balilla o, infine, alla terribile verità
dei campi di sterminio. Il problema che si pone, fin dalle prime pagine – per
bocca di Franco, giovane novizio uscito dal monastero e tornato alla vita dei
campi e di dom Placido, maestro dei novizi venerato da Franco -, è piuttosto
biblico: la Parola esercita davvero la sua signoria su tutto o ci sono spazi in
cui essa non penetra, lasciando l’uomo in balia dell’antiparola? L’assurdo
lambisce, accerchia, squarcia la vita degli uomini, ma può, l’assurdo,
identificarsi con la vita?
In terzo luogo, infine,
Dio non viene rinchiuso nell’ambito della religione, non è un Dio delle
pratiche religiose: i “santi” della resistenza, infatti, sono in gran parte non
credenti.
Allora quale Dio, quale
figura teologica, quale teodicea (se ancora si può tentare una teodicea)? E,
per converso (ma le due cose sono per Luisito Bianchi due facce di una stessa
realtà), quale uomo, quale antropologia e antropodicea?
... nel mistero della storia (Marianne von Werefkin, Lo straccivendolo). |
La
concezione agonica della vita e della storia.
Il libro è anzitutto il
teatro della lotta fra Parola e antiparola. Dio non è metafisicamente l’Essere
supremo, ma biblicamente Parola che pervade, penetra, domina, si nasconde in
tutto e deve essere ascoltata, decifrata: «Una parola inesauribile richiede un ascolto
incessante; e la parola era dappertutto, penetrava ovunque: nell’avvenimento,
con la rapidità folgorante del lampo, nella tessitura dei gesti quotidiani,
violenta come terremoto e suadente come brezza»; «l’uomo è unito all’altro
perché la parola è una»; «Spesso la Parola era muta o impenetrabile
l’involucro degli avvenimenti»; «La Parola» manifesta «la sua impotenza fino al
punto di scomparire»; «La Parola è sovrana, è per tutti, nessuno la può
catturare»; «L’uomo è questa parola»; «La Parola s’è fatta nostra parola
annichilendosi»[9].
La Parola è la gratuità,
il disinteresse, l’amore fino alla sostituzione; l’antiparola è l’antigratuità,
l’interesse, la guerra fino ai campi di sterminio: «La guerra», infatti, «è la
tentazione dell’abisso diventata realtà, è l’antiparola che ha vinto»[10].
La resistenza si colloca –
senza perdere il suo carattere di laicità[11] - in questa più vasta dimensione agonica: è la resistenza di
Piero, il dottore che crede nell’uomo e che curerà i partigiani feriti, di
Stalino, che ha fatto la campagna di Russia e che decide di andare in montagna
per poter guardare in faccia i propri figli, di Rondine, che parla coi morti,
di Giuliano, un puro di cuore «che dalla vita ebbe solo un asino con carretto e
la speranza di fare due pasti da cristiano»[12], di Balilla che non ha ancora sedici anni ….
La vita come lotta ... (Franz Marc, Torre di cavalli azzurri) |
E’ quindi la resistenza
come categoria storica, dalla caduta del fascismo alla liberazione ovvero
dall’8 settembre 1943, con la firma dell’armistizio, all’aprile 1945.
E se proprio dal punto di
vista storico La messa non indulge ad alcuna confusione fra le
parti - il fascismo è «il colosso dalle gambe d’argilla», rappresenta
il «digiuno di vent’anni», il nazismo «la bestia dalle dieci corna»; la guerra
partigiana «il grande avvenimento»[13] – dal più complesso punto di vista della lotta fra
parola e antiparola non si stabilisce semplicemente e manicheisticamente una
netta distinzione fra bene e male come dimensioni antagoniste nettamente
distinte. Parola e antiparola, infatti, attraversano la vita degli uomini dal
di dentro e senza distinzione di parti: anche chi è dalla parte giusta può
farsi antiparola e viceversa chi è dalla parte sbagliata può diventare parola[14].
... la Parola e l'antiparola ... (Franz Marc, Forme in lotta) |
Ma la resistenza – oltre
ad essere categoria storica - è anche categoria politica e soprattutto
teologica. In quanto categoria politica ha una sua precisa coloritura, che
potremmo definire di sinistra. E’ la sinistra delle bande partigiane: gli
autonomi, i garibaldini, le Giustizia e Libertà, ma è soprattutto il socialismo
che sognano Toni, Giuliano e Balilla: un mondo senza più guerre, senza
divisione fra ricchi e poveri, un mondo di giustizia e d’amore. Il popolo è il
protagonista ideale di questa resistenza e Toni ne è il teorizzatore[15]. Dall’altra parte quelli che comandano, il re, il duce, i badogli….,
che cambiano per rimanere sempre «loro»[16].
Una sinistra quindi
metastorica - simbolo di pulizia morale, di resistenza al potere e
all’oppressione – che corre vicina alla logica del vangelo[17], quella logica tradita dalla chiesa ufficiale che vive
tuttavia in alcune figure luminose e profetiche: come l’arciprete «a cui il
nero del fascio non è mai rimasto appiccicato»; come l’abate che pone il
monastero al centro degli aiuti, prima nei confronti degli ebrei, poi dei partigiani;
come il vescovo che si aggrappa al cancello della villa in cui i vecchi
fascisti, ignorati dai tedeschi e per questo pieni di rancore, vogliono dare la
loro prova di forza sugli ultimi arrestati; come dom Luca che condivide fino in
fondo il destino della montagna[18].
Ma è poi anche categoria
teologica: è la resistenza di Dio al male, del Dio partigiano che sta dalla
parte di chi soffre[19]. Il soffio della storia, quello che butta giù gli idoli è Dio
stesso, è l’espressione delle compassiones Dei. Il 26 luglio, successivo
alla caduta del fascismo, è il segno del «deposuit potentes de sede et
exaltavit humiles»[20]. Un segno che può essere rifiutato oppure una grazia che deve
essere conquistata a caro prezzo, come indica l’arciprete: «proviamo tutti
vergogna di quello che è stato, perché sentiamo che la caduta del fascismo ci è
stata regalata, perché ora ci proponiamo di fare qualcosa affinché la vergogna
non si ripeta….»[21].
... la libertà come liberazione (Franz Marc, Cavallo blu). |
In questa linea teologica
va letta anche la resistenza dell’uomo che si fa portatore di un amore
gratuito. Il Dio-parola-amore si rivela nell’amore gratuito di Balilla che
muore per dom Luca, di dom Luca che muore per Rondine, di Rondine che muore per
Piero, dell’abate che muore per tutti. E del professore che finisce in un
campo di sterminio, spegnendosi come un lumicino, per aver rinunciato alla
propria razione di cibo, data ad un giovane deportato: anche lui per amore[22]. Questi sono i santi della resistenza, i martiri di un mondo
nuovo, i testimoni della Parola.
In spirito e verità.
In spirito e verità.
Il fatto che, nella messa, i protagonisti della lotta partigiana siano in gran parte non credenti non riduce il peso di questa interpretazione teologica della resistenza. Non c’è, infatti, separazione fra credenti e non credenti, piuttosto fra parola e antiparola.
Per Franco la Parola è Dio... (Alexej von Jawlensky, Volto del Salvatore) |
... per Piero la Parola è l'uomo ... (Alexej von Jawlensky, Volto) |
... per l'arciprete Dio si riconosce nell'uomo... (Alexej von Jawlensky, Volto del Salvatore) |
La vera adorazione – in spirito e verità – è nella pratica di questo vangelo della misericordia, che può rendere chi si professa non credente più cristiano o meno pagano di chi si ritiene credente. Nella stessa linea di pensieri si muove Dom Luca – l’uomo disarmato che accompagna le bande partigiane -, annotando nel suo diario: «Mi viene da pensare che il destino di ogni uomo che combatte per un mondo rinnovato nella giustizia e nella libertà sia, più o meno, uguale a quello di Cristo»[27].
... per Dom Luca l'uomo si assimila a Dio (Alexej von Jawlensky, Volto del Salvatore). |
Questa
concezione della fede, si potrebbe dire questo senso pratico della fede, che
viene espresso ne La messa e negli altri scritti di Luisito Bianchi, per
un verso libera la Parola da ogni steccato, da ogni presunta cattura e la
restituisce alla sua assoluta sovranità, per l’altro verso sottende
problematiche che l’autore stesso pone. Nel libro Come un atomo sulla
bilancia l’identificazione fra religione e liberazione viene discussa
apertamente. Da una parte, infatti, volere la libertà significa legarsi
autenticamente a Dio, dall’altra parte l’interesse per la liberazione potrebbe
soppiantare l’interesse teologico e il rischio allora sarebbe quello di ridurre
Dio al rango di una ideologia. La liberazione, infatti, non è anche
semplicemente un fatto umano? [29]
Credere di credere.
Ne La messa
tuttavia, accanto al vangelo laico dei non credenti in cui la Parola sembra
compiersi – ma anche esaurirsi - nella lotta per la giustizia, vi è anche il
vangelo degli uomini assetati di Dio. Il discrimine fra questi due vangeli è
segnato nel dialogo fra Marco - un giovane avvocato posto a capo delle
bande di Giustizia e Libertà - e dom Benedetto (il nome di dom Luca sulle
montagne): «Ecco, dom Benedetto, io combatto perché quei valori di solidarietà
scoperti dalla vita monastica siano estesi alla nuova società che dovrà uscire
da questa lotta. Sostituisci la ricerca di Dio, che mi dici essere lo scopo
della vita monastica, con la ricerca dell’uomo, e capirai qual è la società che
io voglio»[30].
La fede intesa come ricerca inquieta... (Marianne von Werefkin, Albero rosso) |
Per dom Luca
la ricerca di Dio non è in contrasto con quella dell’uomo, ma non si esaurisce
in essa. Egli ritiene che l’uomo non possa fissarsi per sempre nella giustizia
e nella libertà, senza bisogno di misericordia. Se un limite ha il vangelo
laico di Marco è nel fare troppo poco i conti col peso del peccato e con la
potenza del male.
Per questo ne La messa, accanto al senso pratico della fede, vi è anche un forte “senso speculativo della verità”[31], espresso dai semplici: la madre che tace di fronte agli interrogativi su Dio con il suo «solo Dio sa come stanno le cose» e che adora, o da coloro che si fanno semplici, come l’arciprete con il suo «l’importante è che si capisca che non si può tutto capire» [32].
E poi vi è la ricerca degli assetati di Dio. Una ricerca che non è filosofico metafisica, figlia di Atene, ma ebraico biblica, figlia di Gerusalemme. Il verbo usato, infatti, non è il vedere ma l’ascoltare: è l’imperativo dell’«obsculta fili» [33]. Sotto questo segno si pongono le figure di Franco, di dom Placido e di Giovannino. Anzitutto Franco che è uscito dal monastero per intraprendere un altro noviziato nell’ascolto di una Parola i cui maestri sono i campi e la madre, lo stesso Franco che vuole andare alla radice del fare, ponendo domande di senso. E ancora dom Placido, il maestro dei novizi che abbandona il monastero e vi torna quando ormai dom Luca e l’abate sono morti, conducendo la sua ricerca della Parola per altre vie: quelle della musica e di Maddalena, la donna che costituirà l’avvenimento della sua vita e che sarà misteriosamente legata alla musica. E infine Giovannino, che appartiene alla nuova generazione, successiva alla resistenza, e che domanda a Franco ragione del perché il mondo nuovo non sia stato costruito e chiede con insistenza se egli (Franco) abbia fede. Con un’espressione dostoevskijana Franco risponde: «Vorrei credere ma solo Dio sa se credo»[34]. E questa sua risposta mette in crisi Giovannino, idealista e appassionato, acceso militante comunista, insonne e tormentato lettore della bibbia, che finirà anche lui col scegliere la via del monastero: «Mi capita una cosa strana, Franco. Ero certo che tu non avessi dubbi sulla tua fede, come io ero altrettanto certo di non credere. E invece, la tua risposta m’ha fatto capire di non sapere nemmeno io se credo o no. Che strano! Bisogna che ci pensi»[35]. La risposta di Franco, quindi, è solo apparentemente debole poiché, a ben vedere, nessun’altra sarebbe stata più convincente, più aderente al modo in cui la Parola si manifesta e nello stesso tempo si nasconde.
Ne La messa
la logica della fede (genitivo soggettivo) si esprime costantemente
attraverso ossimori, tenendo insieme la duplicità degli attributi teologici:
Dio, infatti, è presente ed è assente, Dio pervade tutto e di Dio non c’è che
il vuoto, Dio è signore della storia e Dio è impotente, Dio si fa Parola e Dio
rimane muto, Dio è notte fonda e Dio è squarcio luminoso[36]
.
La fede degli assetati di Dio ha il volto della ricerca e dell’inquietudine. Un’inquietudine che non esplode, ma che trova la sua misura nei gesti quotidiani compiuti con fedeltà, nell’ordine esteriore, monastico in cui si costruisce l’ordine interiore di personaggi come la madre o come Franco o ancora come dom Placido[37].
Per questo ne La messa, accanto al senso pratico della fede, vi è anche un forte “senso speculativo della verità”[31], espresso dai semplici: la madre che tace di fronte agli interrogativi su Dio con il suo «solo Dio sa come stanno le cose» e che adora, o da coloro che si fanno semplici, come l’arciprete con il suo «l’importante è che si capisca che non si può tutto capire» [32].
E poi vi è la ricerca degli assetati di Dio. Una ricerca che non è filosofico metafisica, figlia di Atene, ma ebraico biblica, figlia di Gerusalemme. Il verbo usato, infatti, non è il vedere ma l’ascoltare: è l’imperativo dell’«obsculta fili» [33]. Sotto questo segno si pongono le figure di Franco, di dom Placido e di Giovannino. Anzitutto Franco che è uscito dal monastero per intraprendere un altro noviziato nell’ascolto di una Parola i cui maestri sono i campi e la madre, lo stesso Franco che vuole andare alla radice del fare, ponendo domande di senso. E ancora dom Placido, il maestro dei novizi che abbandona il monastero e vi torna quando ormai dom Luca e l’abate sono morti, conducendo la sua ricerca della Parola per altre vie: quelle della musica e di Maddalena, la donna che costituirà l’avvenimento della sua vita e che sarà misteriosamente legata alla musica. E infine Giovannino, che appartiene alla nuova generazione, successiva alla resistenza, e che domanda a Franco ragione del perché il mondo nuovo non sia stato costruito e chiede con insistenza se egli (Franco) abbia fede. Con un’espressione dostoevskijana Franco risponde: «Vorrei credere ma solo Dio sa se credo»[34]. E questa sua risposta mette in crisi Giovannino, idealista e appassionato, acceso militante comunista, insonne e tormentato lettore della bibbia, che finirà anche lui col scegliere la via del monastero: «Mi capita una cosa strana, Franco. Ero certo che tu non avessi dubbi sulla tua fede, come io ero altrettanto certo di non credere. E invece, la tua risposta m’ha fatto capire di non sapere nemmeno io se credo o no. Che strano! Bisogna che ci pensi»[35]. La risposta di Franco, quindi, è solo apparentemente debole poiché, a ben vedere, nessun’altra sarebbe stata più convincente, più aderente al modo in cui la Parola si manifesta e nello stesso tempo si nasconde.
... nella consapevolezza del dubbio che accompagna il credente (Marianne von Werefkin, Ave Maria). |
La fede degli assetati di Dio ha il volto della ricerca e dell’inquietudine. Un’inquietudine che non esplode, ma che trova la sua misura nei gesti quotidiani compiuti con fedeltà, nell’ordine esteriore, monastico in cui si costruisce l’ordine interiore di personaggi come la madre o come Franco o ancora come dom Placido[37].
La teodicea e l’antropodicea
Ne La messa tuttavia – come si diceva - non si
stabilisce una netta separazione fra credenti e non credenti, fra il vangelo
laico di chi lotta dalla parte dell’uomo e l’ulteriorità della Parola che si
affida all’ascolto e al silenzio. La vera distanza è piuttosto quella che passa
fra il Dio dell’Evangelo e il Dio della religione, fra il Dio testimoniato e il
Dio proclamato dalla chiesa ufficiale.
In un dialogo che ha come protagonisti principali Piero, la
madre e dom Placido compare il tema della difesa di Dio. Questa viene
introdotta in modo non consueto. La posizione di Piero è espressa in questi termini:
«A molta gente Dio non interessa perché è presentato come un Dio che ha molti
affari da gestire per aumentare la sua gloria. Come è possibile credere in un
Dio simile?»[38] Anche dom Placido non crede in questo Dio, quello che «parla
il linguaggio della comoda coabitazione fra coscienza e potere», quello della
religione ufficiale cui il fascismo ha bruciato il suo granello d’incenso, per
stare «l’uno e l’altro sulle loro cavalcature, senza intralciarsi i reciproci
affari»[39].
Come difendere Dio di fronte al male? (Alexej von Jawlensky, Composizione) |
Il discorso sembra lontano dalle questioni della teodicea.
Eppure pone domande che hanno a che fare con una diversa teodicea, biblica e
non metafisica. La madre – che silenziosamente e soffertamente ha accettato
l’umanesimo senza Dio di cui il figlio si è convinto - prega Piero di tacere,
ma egli risponde: «Non ti accorgi mamma che sto difendendo Dio se veramente
esiste?»[40]. Piero ha capito che la potenza di Dio – se un Dio c’è - è
nel suo messaggio di croce e follia, potente perché radicalmente opposto al
mondo e ha fatto suo, secolarizzandolo, il senso della Parola che si è fatta
parola umana. «Perché canta nostra madre?» – chiede un giorno a Franco e
aggiunge, senza aspettare risposta - «Perché ama. Il canto è l’amore che ella
non sa più contenere, è l’acqua che straripa dal secchio… Nostra madre non sarà
mai antiparola. Anche morta sarà parola in noi»[41]. Per Piero l’uomo è la parola cui si
può attribuire quanto Franco riserva a Dio solo: «homo caritas est»
[42]. L’antropologia di Piero mantiene – anche se ad un
tempo nega secolarizzandola - la radice teologica da cui proviene.
Per
questo di fronte al silenzio della parola Piero non si chiede dov’era
Dio, ma piuttosto dov’era l’uomo che avrebbe dovuto testimoniare Dio. L’accusa
rivolta a Dio diventa l’accusa rivolta all’uomo. Dio, infatti, se esiste, sta
dalla parte dei poveri e degli oppressi, non dalla parte della ricchezza e del
potere. Come mai gli uomini di Dio non stanno dalla parte di Dio? E’ per questa
contraddizione che può risultare più convincente il vangelo dei non credenti:
potrebbe essere l’ateo – come nella parabola del samaritano – a rendere
autenticamente gloria a Dio, nel momento in cui si piega a curare un uomo,
anziché il prete e il levita[43].
Come difendere l'uomo? (Alexej von Jawlensky, Testa) |
Come tracciare il vero volto di Dio e dell'uomo? (Alexej von Jawlensky, Testa). |
Piero esprime una tesi che ha un rilievo fondamentale in tutta
l’opera – come nella testimonianza della vita - di Luisito Bianchi e che non
solo denuncia il tradimento pratico della logica evangelica nell’alleanza fra
religione e potere, fra religione e ricchezza, ma che in termini di
responsabilità storica ha decisive implicanze[44]. In Dialogo sulla gratuità, si legge: «Il 1914, il
1939 (e moltissimi altri nella storia del tempo-chronos) indicano la
vittoria della morte sull’umanità. Se i credenti, come comunità, avessero
rifiutato di partecipare a questo trionfo, come scelta d’amore, quegli anni
sarebbero diventati il tempo-euchairìa del mattino di Pasqua, veri Anni
Domini…».[45] A ben vedere il richiamo va oltre il piano morale,
innestandosi nel cuore stesso della speculazione teologica: in gioco, infatti,
non sono soltanto le inadempienze, le omissioni, le debolezze di cui gli uomini
si rendono responsabili, ma la stessa figura di Dio e l’eschaton -
i cieli nuovi e la terra nuova – che ad essa si lega.
Se la Parola, infatti, è entrata nella storia degli uomini in un intreccio indissolubile con la parola umana allora il volto di Dio s’intreccia col volto dell’uomo e Dio parla o tace attraverso gli uomini. Solo così si può comprendere come nell’assoluto non senso dei campi di sterminio il professore sia potuto diventare senso, farsi parola per i suoi compagni di dolore o come la madre, dopo l’assurda morte del marito, abbia potuto continuare ad essere parola per tutta la Campanella o ancora come la morte del bambino ucciso dai tedeschi sia diventata per Stalino parola che scuote e tormenta, fino a spingerlo a partire per la montagna, o, infine, come la lotta partigiana con il sangue gratuitamente versato abbia rappresentato il grande avvenimento e lo svelamento della parola[46].
Sono questi, ne La messa, i testimoni dell’autentica teodicea, quasi che la difesa del vero volto dell’uomo – homo caritas est, come pensa Piero – sia anche la difesa del vero volto di Dio – Deus caritas est, come pensa Franco -: è così che la teodicea si converte nell’antropodicea. Come l’accusa di Dio si era trasformata per Piero nell’accusa dell’uomo (dov’era l’uomo che doveva testimoniare Dio?), così la difesa dell’uomo – che si fa parola, gratuità, amore, non necessariamente nel nome di Dio[47] – si trasforma nella più persuasiva difesa di Dio.
Se la Parola, infatti, è entrata nella storia degli uomini in un intreccio indissolubile con la parola umana allora il volto di Dio s’intreccia col volto dell’uomo e Dio parla o tace attraverso gli uomini. Solo così si può comprendere come nell’assoluto non senso dei campi di sterminio il professore sia potuto diventare senso, farsi parola per i suoi compagni di dolore o come la madre, dopo l’assurda morte del marito, abbia potuto continuare ad essere parola per tutta la Campanella o ancora come la morte del bambino ucciso dai tedeschi sia diventata per Stalino parola che scuote e tormenta, fino a spingerlo a partire per la montagna, o, infine, come la lotta partigiana con il sangue gratuitamente versato abbia rappresentato il grande avvenimento e lo svelamento della parola[46].
Sono questi, ne La messa, i testimoni dell’autentica teodicea, quasi che la difesa del vero volto dell’uomo – homo caritas est, come pensa Piero – sia anche la difesa del vero volto di Dio – Deus caritas est, come pensa Franco -: è così che la teodicea si converte nell’antropodicea. Come l’accusa di Dio si era trasformata per Piero nell’accusa dell’uomo (dov’era l’uomo che doveva testimoniare Dio?), così la difesa dell’uomo – che si fa parola, gratuità, amore, non necessariamente nel nome di Dio[47] – si trasforma nella più persuasiva difesa di Dio.
Il mistero dell’antiparola.
Tuttavia
il pensiero propriamente teologico si approfondisce per bocca di quei
personaggi che, pur affermando la storicità della parola, nella sua presenza e
assenza – anche per dom Placido e dom Luca la Parola parla attraverso gli
uomini -, credono però anche nella sua ulteriorità, in un senso quindi non solo
storico, ma anche metastorico.
Il
dilemma fondamentale, che emerge esplicitamente nelle prime pagine del romanzo
attraverso il carteggio fra Dom Placido e Franco, è, infatti, questo: o la
Parola esercita la sua sovranità su tutto, anche su quegli spazi che ad essa
sembrano sottratti, anche su quegli eventi che appaiono del tutto
incomprensibili, destituiti di senso e valore oppure, nel caso contrario, è
inutile cercarla in qualche luogo: «non esiste, non è mai stata pronunciata,
essendo impensabile una Parola che non sia signora di tutto quanto esiste e
avviene»[48].
La concezione di Dio signore della storia ha da sempre contrassegnato la tradizione metafisica dell’onto-teologia, così come la prospettiva ebraico cristiana delle filosofie e delle teologie della storia. Nel suo orizzonte sono nate le grandi questioni della teodicea, con le argomentazioni volte a giustificare Dio di fronte al misterium iniquitatis ovvero allo scandalo del male. Ma le domande poste hanno superato di gran lunga la capacità del pensiero di dare ad esse risposta. Com’è possibile, infatti, conciliare l’illimitata onnipotenza di Dio con gli atti spaventosi di cui gli uomini si rendono responsabili nei confronti dei loro simili? Come può coesistere la bontà assoluta di Dio con la sua onnipotenza? Come può Dio permettere la sofferenza, soprattutto quella dell’innocente?
Risuona, in questi interrogativi, l’antica domanda di Giobbe, quella domanda che si è fatta così lancinante nel corso del XX secolo – dopo il tragico aggiornamento che l’evento Auschwitz ne ha rappresentato – da condurre pensatori come H. Jonas ad affermare l’impossibilità di pensare Dio secondo le tradizionali categorie teologiche ed in particolare Dio quale signore della storia[49].
La storia dell'umanità alla ricerca di un senso... (Marianne von Werefkin, La città dolente) |
La concezione di Dio signore della storia ha da sempre contrassegnato la tradizione metafisica dell’onto-teologia, così come la prospettiva ebraico cristiana delle filosofie e delle teologie della storia. Nel suo orizzonte sono nate le grandi questioni della teodicea, con le argomentazioni volte a giustificare Dio di fronte al misterium iniquitatis ovvero allo scandalo del male. Ma le domande poste hanno superato di gran lunga la capacità del pensiero di dare ad esse risposta. Com’è possibile, infatti, conciliare l’illimitata onnipotenza di Dio con gli atti spaventosi di cui gli uomini si rendono responsabili nei confronti dei loro simili? Come può coesistere la bontà assoluta di Dio con la sua onnipotenza? Come può Dio permettere la sofferenza, soprattutto quella dell’innocente?
Risuona, in questi interrogativi, l’antica domanda di Giobbe, quella domanda che si è fatta così lancinante nel corso del XX secolo – dopo il tragico aggiornamento che l’evento Auschwitz ne ha rappresentato – da condurre pensatori come H. Jonas ad affermare l’impossibilità di pensare Dio secondo le tradizionali categorie teologiche ed in particolare Dio quale signore della storia[49].
... il senso di un mondo sofferente... (Marianne von Werefkin, La città rossa) |
Com’è
dunque possibile riproporre oggi il tema della signoria di Dio?
Certamente, ne La messa,
l’aver fatto coincidere il nome di Dio col nome biblico della Parola pone la
questione in termini affatto diversi da quelli che caratterizzano la figura del
Dio onnipotente, rispetto alla quale risulta inconciliabile la presenza del
male nel mondo. Il Dio che parla lascia intatto il mistero del male, non spiega
l’origine e l’esistenza del male – l’unde malum di agostiniana memoria -
che tanto hanno affaticato la tradizione metafisica del Dio pensato come
"Colui che è". La Parola si pone oltre e nonostante il mistero
del male, potendo esercitare il suo dominio anche sul male, potendo
sprigionarsi, liberarsi dagli eventi, persino quelli apparentemente più bui e
illuminare: «ti dovessi trovare con la bocca incollata al pavimento», scrive
dom Placido, «anche in quella situazione la Parola troverebbe uno spiraglio tra
te e la pietra»[50].
Eppure anche in questo ripensamento della figura teologica il tema della signoria di Dio si ripropone problematicamente. Il mistero del male, infatti, lascia spazio al mistero dell’antiparola. Se la Parola ha il potere di creare, di rinnovare, di liberare, di aprire spazi d’eterno nel tempo, come può accadere che vi sia un’antiparola che le si oppone, che è in grado di renderla muta e insignificante? E’ questo il tormento di dom Placido che, lontano dal monastero, nel suo soggiorno romano, si esercita sullo spartito, cercando di scoprire nella musica la Parola che in essa si nasconde, con la stessa ostinazione con cui Franco cerca di coglierla nell’avvenimento che vive. La musica, infatti, gli appare enigmaticamente chiusa alla parola, impermeabile ad essa: «è una continua fluidità d’onde impalpabili che ti circondano, che entrano nel tuo stesso corpo facendolo vibrare, come esse comandano»[51]. La musica s’insinua, trascina, seduce, se confrontata con la Parola la rigetta priva di significato[52].
Per questo essa si presenta a dom Placido come un blocco di marmo impenetrabile in cui difficile è capire se tale impenetrabilità dipenda dall’incapacità di cogliere la Parola che in essa si nasconde o se si tratti di uno spazio necessariamente sottratto al dominio della Parola [53].
Certo però, conclude dom Placido, «se
il campo della musica sfugge alla Parola, è pure possibile che altri ne siano
sottratti, con la conseguenza che l’uomo, in definitiva, si trovi in balia di
un’antiparola come quella che si è sguaiatamente manifestata a Palazzo Venezia»[54]. Da cosa dipende questa impotenza della Parola? Che cosa
trascina e seduce? Qual è la forza dell’antiparola? Se il mistero del male può
essere investito di senso e la Parola può filtrare di sé anche il male, il
mistero dell’antiparola pone invece il problema della insignificanza della
Parola, del suo venir meno in termini di senso per l’uomo, del suo cadere
nell’indifferenza. Il silenzio di Dio assume così un altro significato,
rispetto a quello evocato nell’ambito della teodicea: Dio è muto dove la parola
non entra ad illuminare, dove buio e assurdo non hanno la possibilità di un’intima
redenzione perché nessuna parola li filtra di sé. Dio è muto non tanto di
fronte alla sofferenza, ma alla sofferenza inutile, priva di significato e
valore. Dio è muto infine dove altri significati, altre parole antagoniste
dominano l’esistenza. Il mistero dell’antiparola, infatti, è quello di una
parola contrapposta che può rendere la Parola inefficace, priva di senso e può
lasciare l’uomo in preda ad altri sensi.
In questa lotta fra significati, in cui l’antiparola non si presenta necessariamente con un volto demoniaco – come dimostrerebbe la musica, se davvero essa risultasse chiusa alla Parola – a uscirne sconfitta potrebbe essere la Parola e allora il mondo cadrebbe nel caos del non senso o dei sensi antagonisti[55]. «Dove trova resistenza», infatti, «la Parola non dice più nulla», rimane muta e impotente, lasciando il campo all’antiparola[56]. La Parola si è consegnata alla storia degli uomini accettando di essere irrisa, deformata, travisata, sostituita – poiché anche l’antiparola può mascherarsi da angelo di luce – e acconsentendo ad annichilirsi fino a scomparire.
Questa
guerra fra parola e antiparola che dom Placido sperimenta in se stesso
attraverso la musica, troverà per lui esito nell’incontro con Maddalena, la
donna che gli ricorderà quanto il vangelo è esigente e che costituirà
l’avvenimento della sua vita. Maddalena gli rammenterà che la signoria della
Parola non è senza acquisto, ascolto, conquista [57].
Al termine delle sue ricerche, dopo la morte di Maddalena, Dom Placido si confermerà nel convincimento che la Parola non si riceve a basso prezzo, non s’impone come significato per l’esistenza, non si dona senza essere stata prima voluta, lottata e sofferta [58].
In questa stessa ottica va letto un passo emblematico tratto dal diario di dom Luca: «L’obbedienza alla Parola, ripete l’abate, è nell’avvenimento. Debbo attendere che l’avvenimento si chiarisca, accettando l’incertezza dell’oggi come il mio modo attuale di obbedire alla Parola, senza precorrere nessun tempo. E’ una specie di profezia in speculo et in enigmate quella che sto vivendo. E la profezia presenta sempre aspetti oscuri che non possono essere illuminati a comando. La profezia scoppierà all’interno e si manifesterà nella realtà. Il lume a petrolio presso il mio giaciglio sta guizzando gli ultimi bagliori. Tam quam in caliginoso loco… Sento però distintamente i passi della sentinella. L’ascolto è possibile anche al buio… » [59].
Eppure anche in questo ripensamento della figura teologica il tema della signoria di Dio si ripropone problematicamente. Il mistero del male, infatti, lascia spazio al mistero dell’antiparola. Se la Parola ha il potere di creare, di rinnovare, di liberare, di aprire spazi d’eterno nel tempo, come può accadere che vi sia un’antiparola che le si oppone, che è in grado di renderla muta e insignificante? E’ questo il tormento di dom Placido che, lontano dal monastero, nel suo soggiorno romano, si esercita sullo spartito, cercando di scoprire nella musica la Parola che in essa si nasconde, con la stessa ostinazione con cui Franco cerca di coglierla nell’avvenimento che vive. La musica, infatti, gli appare enigmaticamente chiusa alla parola, impermeabile ad essa: «è una continua fluidità d’onde impalpabili che ti circondano, che entrano nel tuo stesso corpo facendolo vibrare, come esse comandano»[51]. La musica s’insinua, trascina, seduce, se confrontata con la Parola la rigetta priva di significato[52].
Per questo essa si presenta a dom Placido come un blocco di marmo impenetrabile in cui difficile è capire se tale impenetrabilità dipenda dall’incapacità di cogliere la Parola che in essa si nasconde o se si tratti di uno spazio necessariamente sottratto al dominio della Parola [53].
... nella seduzione dell'antiparola... (Marianne von Werefkin, L'orchestra) |
In questa lotta fra significati, in cui l’antiparola non si presenta necessariamente con un volto demoniaco – come dimostrerebbe la musica, se davvero essa risultasse chiusa alla Parola – a uscirne sconfitta potrebbe essere la Parola e allora il mondo cadrebbe nel caos del non senso o dei sensi antagonisti[55]. «Dove trova resistenza», infatti, «la Parola non dice più nulla», rimane muta e impotente, lasciando il campo all’antiparola[56]. La Parola si è consegnata alla storia degli uomini accettando di essere irrisa, deformata, travisata, sostituita – poiché anche l’antiparola può mascherarsi da angelo di luce – e acconsentendo ad annichilirsi fino a scomparire.
...nelle manifestazioni ingannevoli della luce ... (Marianne von Werefkin, Fuochi fatui). |
Al termine delle sue ricerche, dopo la morte di Maddalena, Dom Placido si confermerà nel convincimento che la Parola non si riceve a basso prezzo, non s’impone come significato per l’esistenza, non si dona senza essere stata prima voluta, lottata e sofferta [58].
In questa stessa ottica va letto un passo emblematico tratto dal diario di dom Luca: «L’obbedienza alla Parola, ripete l’abate, è nell’avvenimento. Debbo attendere che l’avvenimento si chiarisca, accettando l’incertezza dell’oggi come il mio modo attuale di obbedire alla Parola, senza precorrere nessun tempo. E’ una specie di profezia in speculo et in enigmate quella che sto vivendo. E la profezia presenta sempre aspetti oscuri che non possono essere illuminati a comando. La profezia scoppierà all’interno e si manifesterà nella realtà. Il lume a petrolio presso il mio giaciglio sta guizzando gli ultimi bagliori. Tam quam in caliginoso loco… Sento però distintamente i passi della sentinella. L’ascolto è possibile anche al buio… » [59].
Ne La messa il termine “avvenimento” ha una pregnanza particolare:
all’avvenimento si deve obbedienza e fedeltà. Esso non è il puro e semplice
accadere delle cose. L’avvenimento, - per dom Placido come per dom Luca , è il
luogo in cui la Parola si affida al dire umano, si nasconde e si rivela nella
parola umana, che diventa così traccia di una più alta Parola, rimando ad un
Altrove da cui proviene e di cui è custode. Per questo rivelarsi nascondendosi
la Parola richiede previamente il silenzio e l’orecchio affinato di chi sa
attenderla e discernerla in mezzo alle altre parole.
Solo all’interno di questa dinamica di ascolto e accoglienza la Parola realizza, infatti, la sua signoria, la sua sovranità su tutto quanto esiste e avviene.
La
contraddizione fra pace e giustizia.Solo all’interno di questa dinamica di ascolto e accoglienza la Parola realizza, infatti, la sua signoria, la sua sovranità su tutto quanto esiste e avviene.
C’è tuttavia un punto in cui la distinzione fra Parola e antiparola diventa per dom Luca difficile e drammatica. Ed è quello della violenza.
Il dramma
della violenza si configura, ne La messa, anzitutto come violenza
subita: è la violenza che imperversa nelle campagne, con le squadre fasciste
pagate dai ricchi. Una violenza che è tutt’uno col fascismo e che colpisce
impunemente ogni dissenso, che coarta sistematicamente ogni libera espressione
del pensiero. Di essa porta il segno Toni, che nel ’22 era stato costretto a
bere l’olio di ricino e che era rimasto disoccupato per non aver voluto
prendere la tessera; o Giuliano cui, per iniziativa della Campanella, era stato
regalato un asino, perché «con tutte quelle botte che aveva preso dai fascisti,
non ce l’avrebbe più fatta a tirare il carretto»; o, infine, Rondine, che non
aveva trovato lavoro perché aveva gridato in piazza che la tessera del fascio
non l’avrebbe mai presa[60].
Il
drammatico tema del come resistere alla violenza si affaccia con la figura
misteriosa del professore che nel 29 giunge al paese, che subisce il confino e
che morirà in un campo di sterminio. In particolare in un colloquio con Stalino
e Toni, il professore domanda: «”Quante erano le squadre fasciste che venivano
al paese per spaventare la gente?” “Ce n’era una che girava su un camion per
tutti i paesi del circondario. Dicevano che era pagata dai padroni” rispose
Toni. “Una sola, a ben pensarci, perché erano sempre le solite facce”. “E in
tutti i paesi del circondario non si sarebbero trovati degli uomini che, messi insieme,
avrebbero fatto scappare quella squadra togliendole la voglia di andare ancora
in giro a commettere soprusi e violenze?” continuò il professore. “Se fossimo
stati uniti…” Toni s’interruppe un momento pensoso. “Se fossimo stati uniti,
quelli, con licenza parlando, se la facevano nei calzoni. A me certamente non
avrebbero dato da bere l’olio di ricino. E’ vero, eravamo disuniti, e i
fascisti ci prendevano a uno a uno”»[61] .
Bisognava resistere e resistere voleva dire impedire la violenza del fascismo: ecco la tesi del professore. Ma è anche la tesi di Piero che «voleva sapere come fosse potuto accadere che tutto un popolo, svegliandosi un mattino, si fosse trovato fascista»[62].
La violenza partigiana è la risposta alla violenza subita, all’ingiustizia imposta. Dopo l’8 settembre e l’occupazione nazista molti vengono posti di fronte all’interrogativo terribile: come rispondere alla violenza?
Si tratta
di conquistare la caduta del fascismo perché non risorga più, perché si realizzi
un mondo libero e giusto. Anche la spirale delle rappresaglie, il
coinvolgimento terribile di civili non possono fermare l’azione. La resistenza
all’ingiustizia mette in conto anche questo, a meno di non accettare, ancora
una volta, la legge iniqua del più forte (non è mai la violenza gratuita quella
descritta nell’autentica lotta partigiana).
Ma chi interpreta il dramma lacerante della violenza è dom Luca, il monaco che decide di partire per la montagna e di non portare armi. Alla richiesta di dom Luca che chiede all’abate di seguire le bande partigiane, si accompagna questo dialogo: «L’abate chinò la testa e stette un attimo in silenzio. “Pensi che sia un gesto d’amore?” chiese deciso fissando dom Luca. “Voglio sperare, padre abate”. “Un monaco non deve anteporre nulla a Cristo, e quindi all’amore, nemmeno la propria vita”. “Sì, mi pare sia bene, anche se non tutti i fratelli capiranno…”[63].
Tuttavia – pur rimanendo all’interno della logica dell’amore - sarà proprio il nodo della violenza o non violenza a tormentarlo, a dividerne la coscienza: da una parte il piano dei principi cui rimanere fedele, dall’altra il vortice dei fatti e delle responsabilità.
Il principio fondamentale, quello che ha spinto dom Luca ad andare senza armi, è questo: un uomo di pace, un prete, non può portare armi, non può uccidere.
Ma il dubbio che il principio serva solo a mantenere la propria buona coscienza si fa strada. O non si intraprende alcuna azione - e per dom Luca che aveva scelto la via della montagna, abbandonando la pace del monastero, intraprendere l’azione aveva significato rispondere alla propria coscienza, a un imperativo interiore – o, una volta intrapresa l’azione, si è comunque responsabili delle uccisioni, delle rappresaglie, anche se non compiute in prima persona.
E poi una seconda questione, posta da Piero: e se si trattasse di salvare un uomo, uno di noi?[64] Dom Luca è tormentato da questo interrogativo che ne sottende altri, non espressi: la non violenza assoluta è teorizzabile come principio? Di fronte alla violenza perpetrata cosa significa resistere?
Che cosa significa resistere? (Franz Marc, L'agnello) |
Bisognava resistere e resistere voleva dire impedire la violenza del fascismo: ecco la tesi del professore. Ma è anche la tesi di Piero che «voleva sapere come fosse potuto accadere che tutto un popolo, svegliandosi un mattino, si fosse trovato fascista»[62].
La violenza partigiana è la risposta alla violenza subita, all’ingiustizia imposta. Dopo l’8 settembre e l’occupazione nazista molti vengono posti di fronte all’interrogativo terribile: come rispondere alla violenza?
Come resistere alla violenza? (Franz Marc, Il destino degli animali) |
Ma chi interpreta il dramma lacerante della violenza è dom Luca, il monaco che decide di partire per la montagna e di non portare armi. Alla richiesta di dom Luca che chiede all’abate di seguire le bande partigiane, si accompagna questo dialogo: «L’abate chinò la testa e stette un attimo in silenzio. “Pensi che sia un gesto d’amore?” chiese deciso fissando dom Luca. “Voglio sperare, padre abate”. “Un monaco non deve anteporre nulla a Cristo, e quindi all’amore, nemmeno la propria vita”. “Sì, mi pare sia bene, anche se non tutti i fratelli capiranno…”[63].
Tuttavia – pur rimanendo all’interno della logica dell’amore - sarà proprio il nodo della violenza o non violenza a tormentarlo, a dividerne la coscienza: da una parte il piano dei principi cui rimanere fedele, dall’altra il vortice dei fatti e delle responsabilità.
Il principio fondamentale, quello che ha spinto dom Luca ad andare senza armi, è questo: un uomo di pace, un prete, non può portare armi, non può uccidere.
Ma il dubbio che il principio serva solo a mantenere la propria buona coscienza si fa strada. O non si intraprende alcuna azione - e per dom Luca che aveva scelto la via della montagna, abbandonando la pace del monastero, intraprendere l’azione aveva significato rispondere alla propria coscienza, a un imperativo interiore – o, una volta intrapresa l’azione, si è comunque responsabili delle uccisioni, delle rappresaglie, anche se non compiute in prima persona.
E poi una seconda questione, posta da Piero: e se si trattasse di salvare un uomo, uno di noi?[64] Dom Luca è tormentato da questo interrogativo che ne sottende altri, non espressi: la non violenza assoluta è teorizzabile come principio? Di fronte alla violenza perpetrata cosa significa resistere?
E’ su
questo sfondo che si colloca la lucida consapevolezza di una contraddizione
insanabile, quella fra pace e giustizia. Tutta la liturgia per dom Luca è un
inno alla pace. La vita del monastero, l’essenza del cristianesimo è in questo
inno alla pace. Ma il vangelo di dom Luca non è quello del quieto vivere:
Cristo è il primo combattente per la libertà e la giustizia. Il vangelo è
parola che scuote da ogni schiavitù, parola che chiede di combattere per la
libertà, contro l’oppressione. E allora la pace non è tale senza libertà, senza
giustizia.
Per
questo risulta colpevole non cercare la libertà per rimanere in pace, per
questo il monastero diventa il centro degli aiuti e dei soccorsi ai partigiani,
fino al martirio dell’abate.
E' lecito rispondere alla violenza con altra violenza? (Franz Marc, Cavallo addormentato) |
E
tuttavia la violenza, la guerra sono l’antitesi della parola di riconciliazione
evangelica.
Come arrivare
alla pace libera e giusta senza percorrere la via della guerra? Come reagire
alla violenza senza altra violenza? E il mondo nuovo – di una pace libera e
giusta – come potrà nascere dalla violenza?
Ecco
l’insanabile contraddizione fra quello che è comandato – lottare per la libertà
– e quello che è contrario all’evangelo – la violenza. Vi è un’altra via?
Dom
Luca arriverà ad uccidere – dopo la tragica morte di Balilla – e a sospendere
l’eucarestia, segno di riconciliazione impossibile in un tempo di morte e di
divisione.
Dom
Luca viene così a partecipare totalmente al destino della montagna. Il suo
peccato si colloca nel contesto di un più vasto «peccato collettivo»[65], da cui solo la sua morte – la sua vita donata per salvare
Rondine – lo libererà. La violenza rimane antiparola da espiare, da pagare con
il prezzo della propria vita.
La funzione della scrittura.
Chi ha
letto Primo Levi ha familiarità con un motivo fondamentale che tormenta quanti
hanno vissuto nei campi di sterminio e sono ritornati: il tormento di essere
sopravvissuti. Perché io? Perché non altri?[66] E’ un motivo che ritorna anche – pur con diverse sfumature -
nel libro di Luisito Bianchi.
E’ anzitutto Franco che non perdona a se stesso la colpa di non essere stato sulle montagne, di aver limitato il suo mondo alla Campanella, di essere stato escluso dal grande avvenimento, è lui che avverte più di tutti il peso e il tormento di questa esclusione.
«Franco, dopo la fucilazione dell’abate, era diventato ancora più taciturno, per la vergogna di essere escluso da quelle vicende che lo trasformavano senza essere lui stesso parte attiva. Perché dom Luca e ora l’abate, e Balilla, e non lui? Perché a Piero era stato concesso d’essere protagonista di un mondo rinnovato e non a lui? […]. Lui era stato lasciato al vecchio mondo, a macinare il vecchio grano nella folla anonima che avrebbe solo vantato dei diritti sul sangue degli altri. La madre intuiva e s’era confidata con l’arciprete. “Non preoccuparti Benedetta” le aveva risposto l’arciprete. “E’ giusto che senta così, che debba anche lui pagare come Piero, ma non s’accorge che quello è il prezzo che gli è stato richiesto”»[67].
L’arciprete
può ben capire perché anche lui si sente un sopravvissuto. Anche lui,
dopo la scoperta della morte del professore, in campo di sterminio, prova la
vergogna di esserci ancora: «perché non io? Mi sembra d’essere un superstite in
un deserto…»[68]. E Piero, il dottore, dice di lui: «Ho l’impressione
che l’arciprete viva in quel campo di eliminazione, accanto al suo amico, e si
rimproveri, certo inconsciamente, di non averne potuto condividere la sorte
[…]. Se l’arciprete non esce da quel campo, il cuore gli cederà presto»[69]. L’arciprete in effetti non uscirà da quel campo.
Franco, dal canto suo, inizia un nuovo percorso di ricerca affidandosi alla scrittura[70]. Scrivere diventa un imperativo, una necessità, forse una via d’uscita per non sentirsi sopravvissuto invano: nella convinzione di essere stato «risparmiato solo per poterne fare memoria»[71].
Chi ha vissuto l’avvenimento ha portato e porta il peso degli eventi – che solo il silenzio può conservare intatto dalla banalizzazione e dal fraintendimento, come dimostra l’isolamento di Stalino o solo la responsabilità per la vita che continua può far “dimenticare”, come dice il pudore di Piero -, chi non l’ha vissuto, chi è stato solo spettatore – così si sente Franco -, ha il dovere di raccontare, di far sapere.
«Doveva finire così. Tu accanto ai morti continui la Resistenza che noi abbiamo dimenticato perché non l’abbiamo saputa sopportare. Era un peso troppo greve… Sì, doveva finire così. Non c’è altra spiegazione. Custodiscine la memoria anche per noi»[72].
Ma la scrittura – che Franco stabilisce come il prezzo da dare alla sua vita per pagare la propria esclusione e difendere la resistenza dall’oblio e dagli svilimenti - può imprigionare nel regno dei morti: il rimanere accanto ai morti, il portare dentro i morti può uccidere. Può far considerare veramente vivi e degni di essere amati – nella vita della memoria – solo coloro che sono morti o che hanno rischiato la loro vita (per questo Franco non può perdonare a dom Placido, come a se stesso, di essere un sopravvissuto: se vuol conservare il suo amore per dom Placido deve considerarlo morto dentro di sé).
Quei
morti diventano la parola, ma una parola che separa dal mondo, che esclude
ancora una volta. E così Franco – escluso prima dal grande avvenimento,
che pur costituisce il perno della sua vita – si sente ora anche escluso
dalla vita che continua a scorrere senza fedeltà alla memoria di chi è morto e
gratuitamente ha versato il suo sangue. Perché quei morti che lui porta dentro
non sono serviti a generare un nuovo mondo. Rondine è stato ormai dimenticato e
la società giusta non è stata realizzata. Se quella parola era l’unica, se era
tutta la parola, essa è morta inutilmente. Il senso delle ultime pagine è tutto
centrato su questa inefficacia, inutilità.
E il sentimento dell’inutilità, come quello dell’esclusione, rischia da sempre – per Franco – di dilatarsi oltre il grande avvenimento, alla vita stessa, guardata con rimpianto, quasi che la ricerca della Parola abbia finito col dividerlo dagli uomini, dalla normale vicenda dell’amore di una donna, della generazione dei figli e la presenza di Dio – e dei morti - si sia fatta insopportabile e la solitudine indescrivibile.
E’ su questo doppio binario di ricerca del senso – del grande avvenimento e della propria vita - che Franco, una volta venduta la Campanella e rientrato in monastero, dopo aver pronunciato i voti perpetui, inizia a chiedersi il perché della sua scelta, fino a mettere in conto l’eventualità che si possa trattare di un’altra fuga volta a sancire per sempre la sua esclusione dalla vita e l’inutilità del suo vivere.
Franco chiede l’autorizzazione a un anno di vita eremitica, lontano dal monastero nella solitudine più totale della montagna – la montagna dei partigiani – per scavare dentro di sé, nel suo sentirsi segnato come un sopravvissuto, «vivente il suo presente nel passato»[73].
La scrittura è l’ossessione che l’accompagna: «Se ogni parola fosse stata un colpo di vanga, avrei dissodato tutta la montagna. Ma dove si trovava il tesoro?»[74]. Scrivere può davvero dare un significato a quelle morti, al proprio essere sopravvissuti e, più in generale, alla propria vita? O la scrittura è una via d’uscita solo apparente?
Infine accade interiormente qualcosa d’inaspettato. E’ questo un passaggio chiave in cui la Parola si manifesta ad un tempo nella sua fragilità e sovranità. Franco comprende, in un attimo, che l’ascolto della Parola non può essere rinchiuso nel grande avvenimento, come lui aveva fatto «per poterne, forse, manipolare l’ascolto»[75]. Da questo era dipeso, infatti, il suo ripiegamento nel passato, il suo esilio dalla vita e la sua incapacità di amare i vivi. Eppure «in un attimo» – di grazia e illuminazione, occasionato dalla lettura della Parola biblica – si era fatto chiaro per Franco che la Parola poteva decretare anche la distruzione del grande avvenimento per dichiarare la propria signoria su tutto: «E io proclamavo la Parola contenuta nell’Avvenimento pasquale che doveva creare un mondo nuovo, dal quale anche l’avvenimento di Maddalena e il grande avvenimento che avevano segnato le nostre vite ricevevano luce e grazia; ma ne proclamavo anche l’annichilimento a causa di continui tradimenti, e l’impotenza, cui essa si era sottoposta liberamente, a creare quel mondo nuovo che anche i nostri morti, gli ultimi dei profeti uccisi fra il vestibolo e l’altare, avevano voluto col dono gratuito di sé[76]».
Solo dal momento in cui comprende che la Parola contenuta nel grande avvenimento va oltre esso ed è Parola che si rinnova nel tempo e in diverse forme si fa appello per l’uomo, Franco può perdonare a se stesso di essere un sopravvissuto, come i morti avevano perdonato a se stessi di essere morti invano, immessi in una Parola più grande, quella promessa nell'alba pasquale di un mondo nuovo. In questo orizzonte la memoria dei morti non rischia più di essere culto di miti, ma diventa il modo «per attualizzare una realtà che non si vede», in un misterioso legame di comunione con coloro che l'hanno resa più vicina, sperando in una nuova umanità e lottando per essa[77].
Ed è per Franco l’inizio di una nuova resistenza che assume a questo punto il senso di una categoria interpretativa dell’intera esistenza: è la resistenza al potere per la libertà dell’uomo – contro i tradimenti da cui non ha messo al riparo l’avvenimento storico della resistenza -, ma è anche la resistenza come continua lotta per dare senso alla vita e alla morte.
Il
significato della scrittura scaturisce da questa esigenza profonda e diventa
anch’esso un modo per resistere - per continuare a liberare la Parola dagli
eventi e non lasciare che la notte dell’antiparola avanzi -, laddove scrittura
e vita si sovrappongono: ed è indicativo che Luisito Bianchi, identificabile
più con Franco che con qualsiasi altro personaggio, non si consideri uno
“scrittore”, rivelando così la più alta e impegnativa considerazione della
scrittura, frutto di un’urgenza interiore che non può ridursi a mestiere.
E’ anzitutto Franco che non perdona a se stesso la colpa di non essere stato sulle montagne, di aver limitato il suo mondo alla Campanella, di essere stato escluso dal grande avvenimento, è lui che avverte più di tutti il peso e il tormento di questa esclusione.
«Franco, dopo la fucilazione dell’abate, era diventato ancora più taciturno, per la vergogna di essere escluso da quelle vicende che lo trasformavano senza essere lui stesso parte attiva. Perché dom Luca e ora l’abate, e Balilla, e non lui? Perché a Piero era stato concesso d’essere protagonista di un mondo rinnovato e non a lui? […]. Lui era stato lasciato al vecchio mondo, a macinare il vecchio grano nella folla anonima che avrebbe solo vantato dei diritti sul sangue degli altri. La madre intuiva e s’era confidata con l’arciprete. “Non preoccuparti Benedetta” le aveva risposto l’arciprete. “E’ giusto che senta così, che debba anche lui pagare come Piero, ma non s’accorge che quello è il prezzo che gli è stato richiesto”»[67].
Un cammino che continua... (Marianne von Werefkin, Città in Lituania) |
Franco, dal canto suo, inizia un nuovo percorso di ricerca affidandosi alla scrittura[70]. Scrivere diventa un imperativo, una necessità, forse una via d’uscita per non sentirsi sopravvissuto invano: nella convinzione di essere stato «risparmiato solo per poterne fare memoria»[71].
Chi ha vissuto l’avvenimento ha portato e porta il peso degli eventi – che solo il silenzio può conservare intatto dalla banalizzazione e dal fraintendimento, come dimostra l’isolamento di Stalino o solo la responsabilità per la vita che continua può far “dimenticare”, come dice il pudore di Piero -, chi non l’ha vissuto, chi è stato solo spettatore – così si sente Franco -, ha il dovere di raccontare, di far sapere.
«Doveva finire così. Tu accanto ai morti continui la Resistenza che noi abbiamo dimenticato perché non l’abbiamo saputa sopportare. Era un peso troppo greve… Sì, doveva finire così. Non c’è altra spiegazione. Custodiscine la memoria anche per noi»[72].
Ma la scrittura – che Franco stabilisce come il prezzo da dare alla sua vita per pagare la propria esclusione e difendere la resistenza dall’oblio e dagli svilimenti - può imprigionare nel regno dei morti: il rimanere accanto ai morti, il portare dentro i morti può uccidere. Può far considerare veramente vivi e degni di essere amati – nella vita della memoria – solo coloro che sono morti o che hanno rischiato la loro vita (per questo Franco non può perdonare a dom Placido, come a se stesso, di essere un sopravvissuto: se vuol conservare il suo amore per dom Placido deve considerarlo morto dentro di sé).
...un viaggio nella memoria ... (Marianne von Werefkin, la grande luna) |
E il sentimento dell’inutilità, come quello dell’esclusione, rischia da sempre – per Franco – di dilatarsi oltre il grande avvenimento, alla vita stessa, guardata con rimpianto, quasi che la ricerca della Parola abbia finito col dividerlo dagli uomini, dalla normale vicenda dell’amore di una donna, della generazione dei figli e la presenza di Dio – e dei morti - si sia fatta insopportabile e la solitudine indescrivibile.
E’ su questo doppio binario di ricerca del senso – del grande avvenimento e della propria vita - che Franco, una volta venduta la Campanella e rientrato in monastero, dopo aver pronunciato i voti perpetui, inizia a chiedersi il perché della sua scelta, fino a mettere in conto l’eventualità che si possa trattare di un’altra fuga volta a sancire per sempre la sua esclusione dalla vita e l’inutilità del suo vivere.
Franco chiede l’autorizzazione a un anno di vita eremitica, lontano dal monastero nella solitudine più totale della montagna – la montagna dei partigiani – per scavare dentro di sé, nel suo sentirsi segnato come un sopravvissuto, «vivente il suo presente nel passato»[73].
La scrittura è l’ossessione che l’accompagna: «Se ogni parola fosse stata un colpo di vanga, avrei dissodato tutta la montagna. Ma dove si trovava il tesoro?»[74]. Scrivere può davvero dare un significato a quelle morti, al proprio essere sopravvissuti e, più in generale, alla propria vita? O la scrittura è una via d’uscita solo apparente?
Infine accade interiormente qualcosa d’inaspettato. E’ questo un passaggio chiave in cui la Parola si manifesta ad un tempo nella sua fragilità e sovranità. Franco comprende, in un attimo, che l’ascolto della Parola non può essere rinchiuso nel grande avvenimento, come lui aveva fatto «per poterne, forse, manipolare l’ascolto»[75]. Da questo era dipeso, infatti, il suo ripiegamento nel passato, il suo esilio dalla vita e la sua incapacità di amare i vivi. Eppure «in un attimo» – di grazia e illuminazione, occasionato dalla lettura della Parola biblica – si era fatto chiaro per Franco che la Parola poteva decretare anche la distruzione del grande avvenimento per dichiarare la propria signoria su tutto: «E io proclamavo la Parola contenuta nell’Avvenimento pasquale che doveva creare un mondo nuovo, dal quale anche l’avvenimento di Maddalena e il grande avvenimento che avevano segnato le nostre vite ricevevano luce e grazia; ma ne proclamavo anche l’annichilimento a causa di continui tradimenti, e l’impotenza, cui essa si era sottoposta liberamente, a creare quel mondo nuovo che anche i nostri morti, gli ultimi dei profeti uccisi fra il vestibolo e l’altare, avevano voluto col dono gratuito di sé[76]».
Solo dal momento in cui comprende che la Parola contenuta nel grande avvenimento va oltre esso ed è Parola che si rinnova nel tempo e in diverse forme si fa appello per l’uomo, Franco può perdonare a se stesso di essere un sopravvissuto, come i morti avevano perdonato a se stessi di essere morti invano, immessi in una Parola più grande, quella promessa nell'alba pasquale di un mondo nuovo. In questo orizzonte la memoria dei morti non rischia più di essere culto di miti, ma diventa il modo «per attualizzare una realtà che non si vede», in un misterioso legame di comunione con coloro che l'hanno resa più vicina, sperando in una nuova umanità e lottando per essa[77].
Ed è per Franco l’inizio di una nuova resistenza che assume a questo punto il senso di una categoria interpretativa dell’intera esistenza: è la resistenza al potere per la libertà dell’uomo – contro i tradimenti da cui non ha messo al riparo l’avvenimento storico della resistenza -, ma è anche la resistenza come continua lotta per dare senso alla vita e alla morte.
... per dare senso alla vita e alla morte (Marianne von Werefkin, Alba). |
[1] Il
riferimento è relativo soprattutto ai seguenti testi: Elie Wiesel, La notte,
Giuntina, Firenze 1980; Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz,
Il Melangolo, Genova 1993; Theodor Wiesegrund Adorno, Dialettica negativa,
Einaudi, Torino, 1970; Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere o al di là
dell’essenza, Jaka Book, Milano 1983.
[2] Il
romanzo rappresenta un vero e proprio “caso editoriale”. Tra il 1989 e il 1995
veniva passato di mano in mano in forma autoprodotta ed autofinanziata, finché
casualmente l’editore Sironi si imbatteva in esso e decideva di
ristamparlo, rendendolo così disponibile al grande pubblico: Luisito
Bianchi, La messa dell’uomo disarmato, Sironi Editore, Milano 2003.
[4] Per una
ricognizione del rapporto fra letteratura e resistenza si può vedere la nuova
edizione del Dizionario della Resistenza, a cura di Enzo Collotti,
Renato Sandri e Frediano Sessi, Einaudi, Torino 2006, pp. 998-1005.
[5] La
Campanella ruota soprattutto intorno alla figura indimenticabile di Benedetta,
denominata più spesso “la madre”, quasi ad indicare l’archetipo ideale della
maternità. Accanto a lei “il padre” e i due figli, Franco e Piero. Ad essi si
aggiungerà successivamente Maria che diventa sposa di Piero e da lui avrà
quattro figli.
[6] La
distinzione fra le due concezioni del tempo, oltre ad essere sottintesa ne La messa…, cit., (cfr. pp. 51 e 158), è teorizzata in un altro testo di
Luisito Bianchi, Dialogo sulla gratuità, Gribaudi, Milano
2004, pp. 49-82.
[8] E’
significativo, in questo senso, che a un certo punto del romanzo (ibidem, p.
538), la guerra partigiana venga assimilata alla liberazione del popolo ebraico
– raccontata nel libro dell’Esodo - dall’oppressione del faraone, ad
opera di Mosè.
[14] Cfr. soprattutto
le pagine del dopo resistenza, sulle violenze e umiliazioni messe in atto dai
partigiani dell’ultima ora, nella parte conclusiva del libro: ibidem,
pp. 690 e 719.
Per i
personaggi che vengono “salvati”, pur trovandosi dalla parte sbagliata, si
intende far riferimento alla figura del maresciallo, che protegge Rondine (così
chiamato perché, in paese, circola solo d’estate: «In autunno Rondine si fa
pescare in qualche pollaio, con nel sacco quel tanto che gli assicura di
passare solo l’inverno in prigione. Dicono che è stato il maresciallo a
istruirlo»): cfr. ibidem, pp. 176 e 221 e alla figura della
guardia, che salva Balilla dai tedeschi: cfr. p. 560.
[15] Toni e la
moglie, la Cecina, sono due vecchi amici della Campanella. Si tratta di
personaggi che l’autore guarda con tenerezza e descrive nei loro dialoghi con
sottile e gustosa ironia (cfr. ibidem, pp. 77, 120, 242, 264, 267, 456).
Il concetto di popolo – come soggetto della storia - teorizzato da Toni, è ben
espresso alle pp. 168, 286-287, 744.
[17]
Sull’affinità fra socialismo e cristianesimo autentico si possono vedere ibidem,
le pp. 174 (in cui Giuliano definisce Cristo come il primo socialista); 220
(col legame stabilito dalla gente fra il crocifisso del professore, posto sulla
tomba della moglie, e il suo essere sicuramente antifascista e repubblicano);
infine 756 (in uno di quei gustosissimi dialoghi fra Toni e la Cecina di cui si
diceva alla nota precedente).
[19]
L’espressione “Dio partigiano”, già richiamata nella citazione posta in
limine a questo scritto, si trova Monologo partigiano sulla
Gratuità. Appunti per una storia della gratuità nel ministero della
chiesa, Il Poligrafo, Padova 2004, p. 225.
[21] Ibidem,
p. 240. La figura dell’arciprete – attraverso la quale Manzoni entra a tratti
nelle pagine de La messa - può essere considerata, per molti versi,
l'immagine rovesciata del Don Abbondio manzoniano.
[26] Ibidem,
pp. 201 e 660. Si può notare come nel libro si denomini «povero di Yahwé» sia
Giuliano che non crede, sia il confessore dell’abate (p. 157).
[29] Cfr.
Luisito Bianchi, Come un atomo sulla bilancia, Sironi Editore,
Milano 2005, pp. 146 e 152. In questo testo - in cui l’autore racconta la
propria esperienza di operaio turnista e di prete - la problematica della
liberazione è connessa alla disumanizzazione causata dal lavoro in fabbrica.
[31] La
distinzione fra «senso pratico» e «senso speculativo della verità» è stabilita
dall’autore stesso: ibidem, p. 153.
[33] Ibidem,
p. 22. Sul primato del vedere, rispetto agli altri sensi, nel pensiero
occidentale e viceversa sul primato dell’ascoltare per le religioni della
parola, si possono trovare importanti pagine in Graziano Ripanti, Parola e
ascolto, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 83–108. E’ interessante notare come
La messa si trovi in consonanza con le correnti della filosofia
contemporanea che hanno posto al centro il linguaggio e la parola, abbandonando
l’ontologia o il concetto dell’essere nella sua forma classica (cfr. il testo
succitato di G. Ripanti alle pp. 26-27).
[34] Ibidem,
p. 813. Il riferimento a Dostoevskij è contenuto ne I demoni, Einaudi,
Torino 1988, p. 223. L’esatta espressione dostoevskijana - “credere di credere”
- si trova in Luisito Bianchi, Dialogo sulla gratuità, cit., p. 112
e viene così spiegata: «Oh, sì, credere di credere è un bisticcio di parole, ma
come può uno essere sicuro di credere?».
[36] Cfr. ibidem, pp. 167, 801, 23, 33, 52, 850. Cfr. anche
Luisito Bianchi, Come un atomo sulla bilancia, cit., p. 159.
Italo
Mancini, sulla scorta dell’Idiota di Dostoevskij ha chiamato questa
logica della fede – di cui ha trovato il manifesto nel Libro I°, capitolo IV
delle Confessiones di Agostino - logica dei doppi pensieri: cfr. Scritti
cristiani, Marietti, Genova 1991, pp. 13-28.
[37] Sulla vita
come «ordinato svolgimento di un rito», cfr. Luisito Bianchi, la messa…,
cit., p. 101, con la bellissima analogia fra il monastero e la grande
cucina della Campanella.
[41] Ibidem, p. 50. Sul
cristianesimo come “follia”, cfr. Luisito Bianchi, Come un atomo…, cit.,
p. 131.
[44] Il tema
della gratuità dell’annuncio evangelico insieme alla denuncia del commercio di
Dio da parte della chiesa emerge come un filo rosso in tutti gli scritti di
Luisito Bianchi, da Dialogo sulla gratuità e Monologo partigiano
sulla Gratuità - precedentemente citati - ; dal dramma sacro che porta il
titolo di Simon Mago, stampato nella scuola tipografica San Benedetto di
Viboldone, San Giuliano Milanese 2002 alle diverse raccolte di poesie. Il
tutto va collocato però nell’orizzonte di chi non ha mai rinnegato la sua
appartenenza e fedeltà alla chiesa, non stancandosi mai di ripetere il suo
amore per essa: «Se credo questa mia chiesa clericale è perché la penso ancora
aperta a questa ventata di follia che spazza via ogni compromesso col potere
dell’uomo per scegliere quotidianamente la potenza dello Spirito che la guida»
(Come un atomo sulla bilancia, cit., p. 131).
[46] A un certo
punto de La messa…, cit., i partigiani vengono definiti: «ribelli
per amore» (p. 671).
[70] Anche il
legame fra sopravvivenza ed esigenza della scrittura è presente in Primo Levi:
cfr. I sommersi e i salvati, cit. p. 63 e Se questo è un uomo,
Einaudi Scuola, Milano 1992, nell’Appendice del 1976, p. 253.
[77] Cfr. ibidem, pp. 638. Cfr. anche ibidem, pp. 639, 649,
672, 674, 689-90, 747–48, 850.Chi eventualmente intenda utilizzare questo articolo si impegni a citare la fonte e l'autore. Grazie.
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