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martedì 24 maggio 2016

I migranti e la scuola. Il nipote di Joan Miró.


Joan Miró, 
Costellazioni, 1959
La scuola è il primo laboratorio di integrazione interculturale, dove si gioca in buona parte il suo destino e nel quale la globalizzazione e l’interdipendenza diventano una realtà che porta persone provenienti da ogni parte del mondo ad essere gomito a gomito e l’insegnante ha il difficile compito di far sì che ciascuno possa imparare a rispettare i diritti di tutti ed a comunicare e dialogare in termini di reciproca ospitalità.  
Sono quasi 900.000 gli alunni stranieri nelle scuole italiane di 1° e 2° grado. Gli alunni di seconda generazione, nati in Italia, sono ben il 30,4%.
Ma non parlerò di loro né parlerò dei migranti (regolari-irregolari, economici-rifugiati politici) che ogni giorno si riversano sulle spiagge greche o italiane cercando rifugio in un’Europa ostile. Cose che conoscete e vivete meglio di me. E neppure di quelli che stazionano davanti alle chiese o ai supermercati con il cappello in mano (Attenzione! Se vogliamo ignorarli, non guardiamoli negli occhi, ci coinvolgerebbero...).
Joan Miró, 
Il sole rosso mangia il ragno, 1948
Parlerò invece di esperienze di scuola con i migranti – non importa se regolari od irregolari, economici o rifugiati politici -  e partirò dal libro scritto da Eraldo Affinati (scrittore, insegnante, “maestro di strada”), pubblicato a febbraio.
Affinati si è recato a Firenze, a Barbiana, San Donato di Cavenzano,  Castiglioncello, Milano, Roma dove don Mialni ha vissuto la sua vita e dove sono sorte le sue prime scuole. Poi si è recato per le strade del mondo (in Marocco, Gambia, Berlino, New York, Pechino, Benares, Hiroshima, Città del Messico, Volgograd) per incontrare quanti oggi praticano lo spirito di don Milani, pur senza averlo mai conosciuto, e scoprire che proprio per questo è ancor vivo: è “l’uomo del futuro” (titolo del libro) ed i ragazzi di Barbiana di oggi sono gli immigrati che arrivano da noi senza punti di riferimento.
Joan Miró, 
Donne e uccelli al levar del sole, 1946
La  conferma è nella sua esperienza romana di Penny Wirton, scuola gratuita di italiano per immigrati - tutta di volontari e sono centinaia - che si basa sul rapporto diretto docente-studente uno a uno: ad ogni  giovane immigrato dei centri di pronta accoglienza un insegnante, tra cui molti studenti romani.
Ma trovo ampia conferma anche nelle tante associazioni qui nel savonese: Caritas, Migrantes, S. Egidio e voi scouts. Di questo fenomeno di volontariato grandioso e silente è chiaro il messaggio: l’autentica relazione umana è la condizione fondamentale per insegnare e reciprocamente integrarsi.  
Joan Miró, 
Scala della fuga, 1940
E’ l’amore pedagogico che, come don Milani, si “impasta” con loro: conosce bene la consapevolezza brutale della non riuscita, spesso è impotente di fronte ai fallimenti ed abbandoni, resiste anche quando non si è ricambiati, accoglie, lenisce le ferite, sopporta incomprensioni e frustrazioni. È questo amore pedagogico (o chiamatelo come volete) l’unico fattore educativo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l’impatto dei flussi migratori mondiali.
Joan Miró, 
Carnevale di Arlecchino, 1924-25
Siamo alla sfida-provocazione più profonda: la scuola può essere l’ultima possibilità rimasta. Una scuola forse imperfetta (ma non è forse essa lo spazio dell’imperfezione?), ma viva, perché vive di qualcosa di più della inconsistenza burocratica fatto solo di regole e procedure (per quanto necessarie), perché guarda  la positività che ognuno porta con sé, perché “la verità è un incontro”, la strada  pronunciata ed indicata   più volte da papa Francesco.
Joan Miró, 
Donna nella notte, 1973
Siamo interdipendenti e non possiamo esimerci dal prenderci cura degli altri. “Interdipendenza significa che non possiamo più separarci dagli altri, siano essi stranieri, credenti in altra fede rispetto alla nostra oppure sostenitori di modi diversi di vivere; essi non sono lontani o sull’altra sponda rispetto a un confine controllato da qualche guardiano, ma si trovano in mezzo a noi, li incontriamo ogni giorno sul lavoro, nelle scuole frequentate dai nostri figli, nelle strade dove viviamo. La diversità umana ci è accanto, anche nei posti più vicini. Imparare a praticare l’arte del dialogo dovrebbe essere una delle scelte da inserire tra i compiti più urgenti con i quali dobbiamo confrontarci”(2).
Fare scuola oggi, soprattutto ai più indifesi, significa costruire com-unità. Essa si costruisce nelle situazioni che quotidianamente viviamo attraverso il moto respiratorio di tutti: non c’è un punto d’arrivo, il respiro non si può fermare. 

Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo per forza perché non  si può far scuola senza una fede sicura. […] E’ inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio. Ai partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima d’esser pronta, prima d’essere matura, prima d’esser laureata, prima d’esser fidanzata o sposata, prima d’esser credente. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene” (Don L. Milani, Lettera del 6 gennaio 1966 a Nadia Neri, studentessa napoletana, citata da E. Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016, p. 53). 

Note.
(1) Cfr. Eraldo Affinati (scrittore,  insegnante, “maestro di strada”), L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016.
(2) Z. Bauman, intervistato  da l’Avvenire il 20 ottobre 2014,  in occasione del suo nuovo saggio  Conversazioni su Dio e l’uomo, Laterza, 2014, dialogo con il teologo polacco Stanislaw O



Joan Miró
Senza titolo, 1972
Le immagini di Joan Miró sono tratte dal sito del Mudec di Milano per la mostra Joan Miró, la forza della materia, che si tiene dal 25 marzo all'11 settembre 2016. Ringraziamo il Museo delle Culture per averci autorizzato a pubblicarle in questo post. L’idea di associare Miró ai migranti è scaturita dalla notizia, letta in questi giorni, dell’iniziativa di Joan Punyet, nipote di Miró, di mettere all’asta alcuni quadri del nonno al fine di aiutare i migranti della Siria (qui il link di Repubblica).

Joan Miró,  
La scala della di fuga, 1940, particolare
Joan Miró (1893-1983) è rappresentante del surrealismo, un movimento artistico novecentesco che  intende scavare dentro la psiche per portarne alla luce le radici sotterranee e  proiettarle nella rappresentazione della realtà.  E’ così che oggetti e soggetti si deformano e diventano il prolungamento onirico dell’inconscio. I tratti pittorici sono semplici, quasi infantili, ma dietro questa apparente elementarità del linguaggio si nasconde una simbologia non sempre facile da decifrare e afferrare. I livelli di lettura possono essere comunque stratificati e il primo approccio, immediatamente godibile, è quello di sentirsi afferrati  da un vortice di energia. Vi è una gioia del vivere, espressa nella dinamicità e molteplicità degli esseri pullulanti in queste tele, nel libero movimento delle linee, nella forza dei colori, che attinge alle falde di un originario flusso vitale, primordiale e contraddittorio, posto al di qua delle categorie logiche, estetiche e morali.

Post di Gian Maria Zavattaro: quinto e ultimo estratto dalla relazione tenuta il 2/5/2016 al Campo Scuola Agesci, presso Sassello, diretto da Fabrizio Coccetti e Donatella Mela, appena eletta Capo Guida nazionale. Per il primo, il secondo, il terzo e il quarto, si possono vedere:

Iconografia di Rossana Rolando.

5 commenti:

  1. Per quanto se ne dica la scuola rimane luogo privilegiato di "incontri" ; ottima palestra per imparare a stare insieme, conoscersi, dialogare...
    L'importante è che ognuno abbia il suo "vetro rotto"........ " finestre " lustrate e chiuse non aiutano ....
    Non mostrano fragilità e debolezze che sono di tutti, necessari per accogliere e far" sentire a casa "..
    Grazie, GianMaria

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  2. Per quanto se ne dica la scuola rimane luogo privilegiato di "incontri" ; ottima palestra per imparare a stare insieme, conoscersi, dialogare...
    L'importante è che ognuno abbia il suo "vetro rotto"........ " finestre " lustrate e chiuse non aiutano ....
    Non mostrano fragilità e debolezze che sono di tutti, necessari per accogliere e far" sentire a casa "..
    Grazie, GianMaria

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  3. Rossana Rolando e Gian Maria Zavattaro27 maggio 2016 alle ore 12:57

    Per sentirsi vicino a chi è più debole – marginalizzato dagli eventi e dalla storia – è necessario aver sperimentato su di sé e continuamente sperimentare la debolezza e le tante fragilità che accompagnano ciascuno di noi. Senza questa condivisione della universale condizione umana – vissuta non solo intellettualmente, ma nel proprio profondo sentire – non c’è possibilità di autentica accoglienza. Sempre belle le tue metafore: “vetro rotto”, “finestre lustrate e chiuse”… Ciao cara nele nele, Rossana e Gian Maria.

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  4. Queste riflessioni mi sollecitano doppiamente, come docente e come cittadina. E - nonostante le difficoltà, la stanchezza, la solitudine - aggiungono motivazioni e voglia di impegnarsi ancora. Grazie.

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  5. @Mari da solcare: Penso che il lavoro dell’insegnante richieda la forza di ritornare continuamente alle radici del proprio impegno verso le nuove generazioni, verso questi ragazzi che saranno gli uomini e i cittadini di domani. Proprio la generosità, la capacità di decentrarsi - per mettere al primo posto i giovani e il loro percorso di crescita e apprendimento – mi pare rendano unica e difficile la professione dell’insegnante. Solo una forte motivazione, sempre rinverdita, può permettere di superare tante solitudini, fatiche, difficoltà. Grazie e buon fine settimana.

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