Oggi partecipare ad uno
spazio pubblico significa accendere la TV o navigare in internet. E’ lo spazio pubblico virtuale dalla valenza
ambigua: da una parte un’enorme
potenzialità comunicativa fatta di
intrecci informativi prima impensabili, di scambi culturali ed interculturali
formidabili, di relazioni a 360 gradi…; dall’altra il rischio di perdere il
proprio tempo rispetto alle cose essenziali e davvero importanti, perdendosi letteralmente
nel divertissement.… In effetti oggi la maggior parte di noi dedica il suo tempo ad una frenetica (felice?) navigazione molto condizionata e legata alla pubblicità, alla tecnologia
delle distrazioni, allo scambio telegrafico di notizie o anche di emozioni, allo
scorrere rapido di siti e di blog, alla lettura veloce dei giornali on line...
E anche laddove ci si inoltra nella firma delle petizioni o nella protesta
politica è sempre un “mordi e fuggi”.
Il rischio è di
accantonare i nostri problemi
esistenziali, individuali e collettivi, e di oscurare le questioni essenziali mie, tue, nostre, loro. Tutto
rischia di essere bandito dall’indifferenza creata dalla sovrabbondanza delle
informazioni e degli eventi, specie quelli tragici, che fanno ogni giorno
un chiasso terribile, ci assalgono da ogni parte e vengono implacabilmente trasformati dalla macchina televisiva e
digitale in spettacolo: dalle sentenze della
Cassazione all’olocausto, alle
guerre, il terrorismo, i terremoti e
maremoti, le stragi degli innocenti, le
catastrofi, il bus dei pellegrini che
precipita, le stesse morti dei nostri cari ed amici… E così ci si
volta dall’altra parte, si girano le pagine del giornale, si cambia canale, si
naviga su altri siti o blog, oppure
addirittura si considerano questi eventi
come irreali, secondo il principio digitale “non vidi ergo non est”.
Come se lo spazio non
fosse intrinsecamente legato al tempo, abbiamo accantonato il timor mortis, viviamo
nella rimozione continua della morte, svuotata
di significato, bandita dalla vita o al più
trasformata in spettacolo, perché così non crea imbarazzo
profondo e non ci obbliga al silenzio interiore. Forse è la mancanza di senso,
forse è l’assenza di riferimenti collettivi condivisi la causa-effetto del nostro voltarci dall’altra
parte?
Forse è perché non c’è
nessuno che abbia il coraggio di
esprimere e di gridare un progetto grandioso, o anche solo moderatamente ragionevole, che vada - che ne
so - al di là del bilancio o delle prossime elezioni? Forse è
perché viviamo all’interno di una prospettiva fortemente limitata, di un
orizzonte temporale privato, dove nessuno pare partecipare ad un orizzonte
temporale pubblico?
Forse perchè ci illudiamo che mettendo in pubblico le nostre emozioni o i nostri fatti privati sia sufficiente a cambiarci la vita. In realtà, questi sfoghi non sono altro che un secchiello di acqua fresca che raffreddono tutto e bloccano ogni cambiamento, perchè restiamo impietriti a contemplare il nostro ombelico.
RispondiEliminaAspettiamo che siano "altri" a cambiare, perchè Noi ci "meritiamo" un cambiamento: Siamo nella logica del "tutto è dovuto"!, illudendoci che la nostra onestà sia uno sforzo sufficiente.
In realtà essere onesti non implica il meritare, ma è un sacrosanto dovere
I diritti non sono un merito, credo.
Se, invece, iniziamo a pensare di vivere la nostra quotidianità, senza aspettarci niente dagli altri perchè è dovuto, ma entriamo nella logica del "dono" a partire dalle nostre relazioni più intime, forse, riusciamo a vivere la nostra vita in modo diverso e a metterci in gioco veramente, chiedendoci "Ma io dove posso cambiare", uscendo dal vanitoso pregiudizio del sentirci la coscienza a posto.
Apriamo la finestra della nostra vita e facciamo entrare "un po' d'aria fresca".
Così predicava don Tonino Bello: ”Cambia il tuo cuore. E’ dal cuore vecchio che nasce la guerra. Non è il fucile che spara, è il dito che preme il grilletto”
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