Lo
sconfinato mare dell’alienazione, la non comunicabilità tra gli uomini, la
solitudine e l’angoscia sono realtà consistenti
nella società odierna e temi ricorrenti e preminenti in larghi settori filosofici e culturali (teatro, cinema, letteratura). Ma ”solitudine”
può significare diverse e divergenti
realtà.
Che cos'è la solitudine? |
1.
Ci sono solitudini “oggettive” legate a questo nostro tempo e spazio: l’essere soli, isolati, abbandonati, separati, stigmatizzati, emarginati per malattia o
vecchiaia o miseria.
Abbandonati, separati, stigmatizzati. |
2. Ci sono solitudini che rimandano alla storia personale ed alle sofferenze psichiche di ciascuno: angoscia, disperazione, melanconia che possono sconfinare in una realtà patologica ed in morbosi egocentrismi.
Chiusi nella propria angoscia. |
3.
C’è infine la solitudine data dall’identità inesprimibile di ognuno, segno di
interiorità, condizione di ogni autentica relazione interpersonale e di
fraternità.
Il
pendolo oscilla tra la solitudine contraria al nostro bisogno di rapporti umani
e l’esigenza di solitudine come mezzo per trovare se stessi e andare oltre se
stessi.
Alla ricerca di se stessi... |
La solitudine quindi è bipolare: nell’accezione negativa è dimensione asociale come abbandono e isolamento, oppure dimensione antisociale come derelizione, dannazione; in quella positiva è grazia, necessità del ritrovamento esistenziale del senso, polarità costruttiva della dimensione sociale.
... per ritrovare gli altri. |
Di questo vorrei prossimamente
riflettere con chi è interessato.
Tutte le immagini riproducono opere di Ismael Nery.
Chi
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Tutte le immagini riproducono opere di Ismael Nery.
Caro Professore,
RispondiEliminaTroverei particolarmente interessante una riflessione sul rapporto che lega l’uomo, nella sua dimensione di esistenza incomunicabile, con l’uomo “sociale”, che instaura relazioni interpersonali. Una serie di interrogativi sorgono a tale proposito: quale delle due dimensioni – quella esistenziale individuale o quella sociale – deve essere riconosciuta come quella cui l’uomo, nella propria natura, da ultimo tende? Quali passaggi logici permettono di colmare il “salto” che sembra distanziare, da un lato, l’individualità intima ed incomunicabile dell’uomo e, dall’altro, la sua tensione ad instaurare relazioni con gli altri individui?
Tenterei di sviluppare un ragionamento di questo tipo: volendo partire dall’etimologia di “individuo”, riconosciamo che essa – come “individuum”, ciò che non può essere diviso – reca il medesimo significato di “àtomos”. La filosofia atomica di Democrito metteva in evidenza come l’atomo rappresentasse l’elemento costitutivo ultimo della realtà naturale: in particolare, esso, pur legandosi ad altri atomi a formare la materialità del reale, manteneva pur sempre la propria unicità, individualità e completezza. Volendo applicare il medesimo principio al genere umano, direi che l’autonomia critica costituisce la radice che vale ad affrancare l’uomo da quelle leggi di natura in forza delle quali, invece, gli altri esemplari del mondo animale vanno a costituire una ‘massa’ di esseri viventi e di specie i cui singoli elementi vivono di una sostanziale e costitutiva indifferenza gli uni rispetto agli altri; ma occorre considerare che l’autonomia critica, pur propria dell’umanità nella sua generalità, trova la via per spiegarsi e dare potenziale libero sfogo a se stessa precipuamente nell’individuo, nella sua essenza di unità costitutiva del genere umano. L’azione dell’autonomia critica si dispiega, innanzitutto, nell’intellettualità dell’individuo, e solo in un secondo momento i suoi frutti possono andare a contribuire al confronto che avviene in società. Nella misura in cui l’esercizio dell’autonomia critica costituisce la ‘conditio per quam’ dell’avveramento di quella che potremmo chiamare la “vocazione esistenziale dell’individuo”, l’essere esistenziale, concretandosi nell’individuo stesso, sembra mettere in luce come quest’ultimo, nella propria esistenzialità, sia davvero un’isola; e un’isola rimane tale anche nel momento in cui una rete di ponti la mette in collegamento con le altre isole.
L’individuo, nella propria dimensione esistenziale, sembra così rivelarsi essenzialmente “isolato” e sperimenta tale sua intima condizione nella costante, ininterrotta rivelazione dell’irrimediabile incomunicabilità di fondo della propria intima interiorità: un ponte è valido a far transitare mezzi di determinate dimensioni, che però non possono eccedere un certo limite: tutto ciò che supera tale limite non può fare altro che rimanere entro i confini dell’isola.
Il concetto fondamentale appare, dunque, quello per cui le identità individuali non possono essere efficacemente ridotte alle loro possibili ‘rappresentazioni’ contingenti, senza che ne venga smarrita l’essenza. L’identità individuale si dischiude – quando lo fa – unicamente all’individuo, nella sua interiorità incomunicabile. Ed è ciò a fondare quello che appare come il costitutivo isolamento di fondo dell’individuo, il quale non ha possibilità di comunicare compiutamente ed efficacemente il proprio Io al’esterno, esterno che, per parte sua, potendosi figurare in via meramente rappresentativa le varie identità individuali, sembra non avere possibilità alcuna di afferrarle e comprenderle nella loro compiutezza e profondità. Il linguaggio con cui l’identità individuale si disvela all’individuo, utilizzando caratteri ed espressioni conoscibili solamente da costui, non è lo stesso – e vi è d’altronde intraducibile – del linguaggio con cui essa può provare ad essere comunicata all’esterno; l’uno è linguaggio della coscienza – per definizione personalissima e segreta – , l’atro è linguaggio della rappresentazione. E se tutto ciò è corretto, c’è da dubitare che esista una Stele di Rosetta capace di armonizzare i due idiomi. Tutto ciò, portato alle sue estreme conseguenze, sembra addirittura suggerire l’inesistenza di un mondo “oggettivo” in cui le individualità esistenziali possano efficacemente comunicarsi (sempre a patto di riconoscere almeno la possibilità teorica che ciò avvenga); ma questo esce dai confini dell’argomento trattato in questa sede. Mi limito alla citazione di un passo che trovo particolarmente eloquente a tale riguardo:
RispondiElimina“Le mie sensazioni esterne non mi sono meno esclusive di quanto non lo siano i miei pensieri o i miei sentimenti. In ogni caso la mia esperienza cade entro l’ambito della mia propria cerchia, una cerchia chiusa all’esterno; e, sebbene tutti i loro elementi siano simili, ogni sfera è opaca per le altre che la circondano […]. In breve, in quanto esistenza che appare in un’anima, il mondo intero è particolare a ciascuno, e ad ogni anima assolutamente privato.” [F. H. Bradley, “Appearance and Reality”, p. 306].
Per concludere: se davvero l’uomo a ragione sperimenta tale condizione di isolamento, in che modo si può argomentare nel senso di considerare come ‘autentica’ la narrazione che di sé compie l’individuo in società, narrazione che pure si presenta come essenziale, costitutiva rispetto alla natura umana? Come transitare, ragionevolmente e giustificatamente, da una condizione di così intima solitudine al polo opposto della socialità buona ed autentica?
La saluto con affetto,
Raffaele Mittaridonna
Caro sig. RAFFAELE, non mi illudo di poter liquidare, in quattro e quattr’otto, una risposta alle sue appropriate, stringenti, intense riflessioni, perché riguardano appunto l’essenziale. Da quando frequentavo il Liceo nel mio bel Piemonte (un po’ di anni fa …) e poi come studente universitario e docente e preside ed ora pensionato, continuo ad essere alla ricerca di una compiuta risposta … Posso però far riferimento a direttrici, orizzonti (il personalismo comunitario, le filosofie del dialogo e del “tu”…) che sono l’humus della mia formazione, memore di quanto suggeriva M. BUBER, per il quale il nucleo centrale e segreto di ogni uomo deve essere l’attenzione all’evento di tutti i giorni “nella pienezza di ogni ora mortale ricca di appello e di responsabilità”. Non le ore superoccupate nella banalità e trivialità, ma quelle ricche di appello e responsabilità: tempo del “kairos” delle relazioni, tempo che si ha a disposizione per se stessi, per gli altri e, se si è credenti, per Dio.
RispondiEliminaIo preferisco parlare, più che dell’individuo, della persona, che richiama e reclama piuttosto una relazione essenziale. ‟La persona - scrive Mounier - non è l'essere, ma movimento dell'essere verso l'essere. Non è un oggetto, sia pure il più meraviglioso oggetto del mondo, che noi conosceremmo come gli altri oggetti, dal di fuori: essa è l'unica realtà che ci sia dato di conoscere e, in pari tempo, di costruire dall'interno, un’attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione”. Certamente è un assoluto, che però si comprende solo in una relazione: non è un’entità, ma “un’esistenza incorporata” nel mondo attraverso il bisogno, l'amore e l'azione, ‟un movimento incrociato di interiorizzazione e di dono" che non si lascia rinchiudere nell'opposizione fra l'Io e gli altri. L’apertura agli altri, l'amore non sono atteggiamenti o sentimenti che si aggiungono alla vita, ma sono costitutivi della vita umana. ‟L'atto d'amore è la più forte certezza dell'uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: amo, dunque l'essere è e la vita vale la pena di essere vissuta". ‟Al limite, essere è amare".
Se la “parola” è il fondamento dell'esistenza personale, il ‛dialogo' è la pratica dell'esistenza collettiva. J. Lacroix afferma che ‟invece di caratterizzare la persona tramite l'incomunicabilità, bisogna fare l'inverso. [...] Il soggettivo è l'intersoggettivo. La parola non ha il suo punto di partenza nel monologo ma nel dialogo. [...] Il linguaggio per sua essenza non è di uno ma di molti, esso è ‛fra’". Molti altri filosofi (es. M. Buber, M. Nèdoncelle, J.M. Domenach, P. Ricoeur…) convengono che “la persona esiste solo verso l'altro”, che “la prima esperienza della persona è l'esperienza della seconda persona” e che “ il Tu e quindi il Noi, precedono l'Io o per lo meno l'accompagnano". La persona, al di fuori della fittizia opposizione fra individuo e collettività, vive una dinamica esistenza incorporata, in una dialettica del soggetto e del mondo, del ‛per sé' e dell'‛in sé'.
Caro Raffaele, non era e non è mia intenzione convincerla di nulla. Non ho certo risposto che in parte alle sue argomentazioni, ma spero che la mia prospettiva possa anch’essa contribuire ad illustrare la complessità dei problemi da Lei posti. Non ci resta che continuare a ricercare liberamente le risposte alle domande di senso ed insieme serenamente condividere i nostri pensieri e le nostre attese. Un caro saluto da parte della mia Rossana.