La retorica della propaganda prima della guerra. |
La retorica dopo la guerra. |
Qualcuno
vorrebbe che il 4 novembre fosse per
tutti giorno d’esultanza e di celebrazioni della vittoria. Io non ci riesco. Quale vittoria? Mio nonno è
morto sul Carso nel 1916, lasciando una vedova 22enne (mia nonna), mai
risposatasi, e due piccoli figli (mio padre e mio zio). Da allora la mia
famiglia è stata segnata per decenni, e lo è per certi versi ancora oggi, da
questo tragico irreversibile e per noi
assurdo e inconcepibile lutto. Così è stato per centinaia di migliaia di
famiglie in Italia e per milioni nel mondo.
Non ho nessuna voglia di celebrare questa vittoria, solo di ricordare il pianto di vedove ed orfani prematuramente privati degli affetti più cari. Che cosa c’è da celebrare a ricordo di questa ”inutile strage”?
Il biennio rosso? La fame e la
miseria? I calci nel sedere a mio padre, costretto a 10 anni a cercar lavoro, da
parte del suo cosiddetto “principale”, a
Cuneo? La crisi del 29? La rivoluzione russa? L’avvento del fascismo? No, non ci riesco. E non è solo
questione di essere o non essere pacifici e pacifisti. Certo lo sono: pacifico, ma non pacificato e non liberato dalle guerre di ieri e di oggi.
A Cuccaro Monferrato, paese natale di mio
nonno la mia famiglia partecipa all’inaugurazione del nuovo parco dedicato
alla memoria dei caduti, a nome dello
strazio di centinaia di migliaia di famiglie italiane.
E
non si tratta di ricordare solo i caduti, vorrei ricordare anche il ritorno a casa dei combattenti rimasti vivi
alla fine del conflitto. La guerra, oltre ad impegnare ed esaurire tutte le
disponibilità economiche e finanziarie dei paesi in guerra, li aveva costretti,
nella quasi totalità, a gravarsi di
debiti pesantissimi; le industrie presentavano il problema della riconversione
da industrie di guerra ad industrie di pace, con l’aggravante di manodopera
qualificata falcidiata dalla guerra; le campagne, che avevano fornito agli
eserciti il maggior numero di combattenti, presentavano il desolante aspetto delle terre abbandonate.
Nei paesi vinti ancor più drammatica la
situazione a causa delle dure condizioni
imposte dai vincitori. Ovunque i
fenomeni tipici del dopoguerra: inflazione, scarsità di beni di consumo, rincaro
spaventoso dei prezzi. Scampati dalla morte in guerra, i reduci e le loro
famiglie dovettero affrontare una quotidiana lotta per l’esistenza, non meno tragica.
Più
drammatico ancora il ritorno dei mutilati e degli invalidi.
Per loro la distinzione tra chi aveva vinto e chi aveva perso non ha senso: per tutti l’inserimento nella vita familiare e civile comportò implicazioni materiali psicologiche e morali che sconvolsero e resero angosciante l’esistenza quotidiana. Problematico e difficile il destino di tanti mutilati ed invalidi condannati a vivere giorni stentati e dolorosi, incapaci di riprendere il loro posto nella vita civile e spesso anche nella stesa vita familiare.
Invalidi di guerra. |
Per loro la distinzione tra chi aveva vinto e chi aveva perso non ha senso: per tutti l’inserimento nella vita familiare e civile comportò implicazioni materiali psicologiche e morali che sconvolsero e resero angosciante l’esistenza quotidiana. Problematico e difficile il destino di tanti mutilati ed invalidi condannati a vivere giorni stentati e dolorosi, incapaci di riprendere il loro posto nella vita civile e spesso anche nella stesa vita familiare.
Lizzana, frazione di Rovereto, alla fine del primo conflitto mondiale. |
Rimangono amarezza e sgomento per le celebrazioni tronfie di una ipocrita retorica che non costa niente, se non ai contribuenti. La memoria, quella vera profonda, decisamente si è affievolita. Amo il mio Paese, l’Italia, non per la vittoria di 95 anni fa, ma per la capacità della sua gente – i nostri tris/bisnonni, nonni e padri -, anche di fronte alle sconfitte, di non arrendersi mai, di operare e sperare in un domani migliore per le nuove e future generazioni.
Giorno della pace. E del bene comune.
RispondiEliminaPenso che questo debba essere il senso con cui vivere questa giornata.
Conoscere il passato, per comprendere il presente e progettare un avvenire di giustizia e pace. Ricordare, a partire dalle giovani generazioni (sin dalle scuole elementari) che la guerra è "un'inutile strage" e che "nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra".
La mia personale testimonianza ed esperienza, invece, è questa: come sa, tra le altre cose, mi occupo, in parrocchia a Ranzo di preparare le celebrazioni liturgiche. Come è annuale tradizione, nella domenica o nella giornata precedente al 4 novembre in cui vi è congruo concorso di popolo viene benedetto il monumento ai caduti. Nel rito che ho preparato, estratto e adattato dal "Benedizionale", abbiamo pregato con il salmo (85, 9-14) e proclamato, come responsorio, "beati gli operatori di pace".
E poi pregato per il bene comune e perché il nostro Paese faccia memoria concreta di principi-valori come la solidarietà che costitutivamente ne segnano l'identità. Celebrare la giornata dell' Unità Nazionale- anche come comunità ecclesiale- è, secondo me, questo.
Il post formula un duplice giudizio: quello storico sulla grande guerra, le cui conseguenze hanno condizionato gran parte del Novecento (non si capirebbe la seconda guerra mondiale senza la prima) e quello sulla ricorrenza del 4 novembre, giornata della vittoria, secondo una dicitura trionfalistica, o della pace, come qui si suggerisce. L’intervento di Marco Rovere coglie entrambi gli aspetti, muovendosi in piena sintonia con quanto espresso nel post, sia in ordine al giudizio sulla guerra, sia in relazione alla personale e ricca esperienza sul senso della festività. Penso tuttavia che in un pubblico, immaginario dibattito, molte – e forse anche accese – sarebbero le posizioni discordanti su questi temi.
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