Il
nomade Abramo simboleggia per Lévinas l'irruzione del nuovo che ci sorprende,
che spinge ognuno di noi oltre se stesso nella direzione verso l’altro, per
scoprirne il «volto» al centro della nostra esistenza: senza ritorno, perché non
può esserci reciprocità nel faccia-a-faccia,
relazione sempre asimmetrica (“diaconica”) in cui il volto dell'altro non è mai
definitivamente afferrabile.
“Evadere” è il nuovo imperativo etico:
l’evasione dai luoghi conosciuti del nomade Abramo non è sinonimo di
fuga o disimpegno, ma bisogno di uscire da se stessi, nella
responsabilità-per-l’altro. Il suo nomadismo senza ritorno è segno di
un’inversione di cammino di un pensiero, sempre in movimento, che rivendica il
primato dell’etica.
Il
tempo incalza, nessuno di noi ha le
sponde note della propria Itaca da
ritrovare e dove ritornare: siamo in cammino come Abramo, nomadi alla ricerca
di una verità nomade, verso l’ignoto
della terra promessa, al di là di Itaca, in un luogo sempre al di là.
Ma non a tentoni, perché la nostra avventura
spirituale ed intellettuale è data dalla capacità di vigilare per cambiare, essere
diversamente, “altrimenti che essere”. In questo nomade cammino “incontrare
un uomo significa essere tenuti svegli da un enigma”
(Lévinas), assumersi la responsabilità verso l’altro, incontrarlo
faccia a faccia.
... quella di porre l'altro prima dell'io ... Creazione della luce, Gustave Doré |
A
questo punto che cosa mai potrebbero dirsi Abramo ed Ulisse? Piero Boitani (Sulle orme di Ulisse, Il Mulino, BO,
2007), in modo peraltro molto discutibile, ha immaginato un paradossale
incontro tra i due presso la quercia di Mamre: Abramo, vecchio pastore debilitato
dall’età, dal sonno e dall’afa nell’ora più calda del giorno; Odisseo che porta
con sé un remo, segno del suo vagabondo ritorno per mare. Il dialogo tra i due si fa subito ambiguo, anzi incomprensibile:
due modalità nomadiche eterogenee, inconciliabili, incomunicabili,
suggellate dalle inquietanti finali
parole di Abramo, dopo la partenza di Odisseo: “Si ricordò che non gli aveva domandato il nome: ma ormai era troppo
tardi. (...) Non ho visto nessuno, decise” (cit., pag. 85).
“Nessuno”
è Ulisse, nessuno è l’incontro fra due
culture distanti abissalmente: l’una incistata su di sé, chiusa nella
propria identità; l’altra centrata sul
“volto” dell’altro per essere diversamente, “altrimenti che essere”.
Abramo ci invita
a vivere il coraggio di essere nomadi
alla ricerca della terra
promessa, in sintonia con la
sua avventura che fa del viaggio “il luogo stesso del soggiornare”.
Riconoscerci in questa dimensione del nomadismo significa assumerci l’impegno di preparare
un “convivio delle differenze” da opporre al “conflitto delle differenze”,
stimolando la comunità civile ad una solidarietà senza barriere né psicologiche
né territoriali.
...nell'ottica dell'ospitalità... Abramo e i tre angeli, Gustave Doré. |
E non mi sembra poco alla vigilia delle elezioni
amministrative ed europee.
Gustave Doré è stato un pittore e incisore francese vissuto tra il 1832 e il 1883. E' noto soprattutto per le sue illustrazioni alla Divina Commedia di Dante.
Due brevi flash sulle riflessioni del Sig. Luca (sul post “essere nomadi e saperlo”) e di Rossana (sul post “identità nomadiche oggi”). 1. Caro Sig. Luca, nel ritrovarmi anch’io nel Suo commento, vorrei solo aggiungere che non a caso il viaggio ha sempre simboleggiato la vita umana: essere nomadi non è cosa strana, semmai il contrario, pretendere di non esserlo. Non c’è avventura senza nomadismo; non c’è speranza né fede né amore sodale se non si accetta di divenire. Forse la tristezza non è nella solitudine, ma nel lasciar sole le nostre solitudini. 2. Non c’è nulla sulla terra che possa essere definitivamente mio, tuo, loro, se non l’incomunicabilità della disperazione. Non conosco autoctoni che un tempo non fossero stranieri e non conosco forestieri che il futuro non possa rendere ospiti ospitati ed a loro volta ospitanti. C’è per ognuno di noi, soprattutto oggi, un destino terrificante al quale si rischia di soccombere: quello di rinchiuderci nella propria prigionia, entro i muri del proprio narcisismo – celebrato in tutte le sue varianti - e della sclerosi di una vita quotidiana ridotta ad automatismi e compulsioni a ripetere. A meno di “evadere”, come Abramo...
RispondiEliminal'argomento è stimolante..e posto in modo suggestivo. Si potrebbe dire molto, a partire dal fatto che l'uomo nasce nomade, e quando diventa stanziale e inizia a costruire recinti inventa le religioni per come le conosciamo ( non il senso religioso!), gli eserciti etc...resta la straordinaria forza del sentimento di appartenenza, quello che rende orgogliosi di ciò che si è e quindi curiosi e non impauriti dagli altri, fino a vedere negli altri l'Altro che c'è in ciascuno...in Nepal tutti si salutano dicendosi "Namaste" che significa " riconosco il Divino che c'è in te"...forse si potrebbe dire, con Novalis , " ma dove andiamo dunque? Sempre verso Casa...
RispondiEliminaCaro Giuliano, mi pare che Tu non sia cambiato dall'ultima volta... Il tuo commento, che è piaciuto molto anche a mia moglie, mi pare disingua molto opportunamente la religione dal sentimento religioso. Altra cosa ancora è la fede, quella di Abramo per stare sul tema. Con Novalis condivido la nostalgia - desiderio del desiderio - dell'Infinito. Mi convince meno l'andare sempre verso Casa. Forse la terra promessa è ancora andare oltre, al di là, senza certezze di approdo. E solo quando meno te l'aspetti (alla fine del viaggio?) con stupore - oh, la meraviglia! - scoprire e riconoscere che l'Altro è la tua casa....
Eliminami piace davvero il riferimento alla "fine del viaggio"...con il lavoro che ho la fortuna di fare mi imbatto sistematicamente con culture che hanno un rapporto con la Morte molto diverso dal nostro...e questo mi mette sempre a pensare...sulla questione della Casa ci potrebbe dire molto...certo la casa è un luogo dell'Anima, e questo sposta la profondità di campo...per il resto, mi piacerebbe trasformare questa conversazione da virtuale
RispondiEliminaE' un tema - quello della fine del viaggio - molto importante anche per me, nonostante le molteplici forme di etero ed autocensura che ci inducono a rimuoverlo. Come dice il Qohelet, c'è un tempo per vivere e un tempo per morire: primo o poi potremo affrontare insieme questo problema nel blog. Comunque resta una grande occasione anche questa virtuale conversazione.
RispondiEliminaMi piace molto questa interpretazione della figura di Abramo, che si avvicina molto alla mia concezione di viaggio, come momento di uscita da sé stessi, per cogliere la diversitá, mettersi in discussione, imparare a conoscere l'ignoto. Tutto questo non sarebbe possibile rimanendo fermi nelle nostre posizioni, senza porre il dubbio sulle nostre certezze.
RispondiEliminaGrazie per lo spunto di riflessione! Un caro saluto, Eleonora
Sì, credo anch’io che il fascino della figura di Abramo sia dato soprattutto dalla disponibilità a lasciare presunte certezze per abitare l’insicurezza e la precarietà di chi intraprende un viaggio verso l’ignoto, non in maniera temporanea, ma come stile di tutta l’esistenza. Abramo non appartiene all’ebraismo semplicemente, è una figura che trascende i confini di un popolo o di una cultura, per farsi portatore di un messaggio universale. Nella tua interpretazione, così come nella lettura di Lévinas, l’ignoto è l’altro, la terra promessa è la risposta al comando che viene dal volto dell’altro, senza reciprocità. Impegno tanto difficile, che richiede davvero l’uscita da sé. Tu però sottolinei soprattutto la possibilità di imparare a conoscere l’ignoto, mettendo in discussione se stessi, ponendosi dal punto di vista dell’altro e diminuendo quindi le distanze, nella direzione di una possibile comunione e reciproca comprensione.
EliminaGrazie per la tua riflessione. Un augurio di cuore per il nuovo anno, per le tue attese e i tuoi desideri, anche da parte di mio marito. Un caro abbraccio, Rossana Rolando.