“Non abbiamo il
diritto di escludere la guerra ad ogni costo, ma dobbiamo salvare la pace e
l’onore con tutte le forze e con ogni impegno.
Si deve
rischiare tanto la pace quanto la guerra…
Lottiamo come
disperati contro la guerra, non accordiamole neppure un briciolo di complicità,
ma non arriveremo ad esorcizzarla se con come si scongiura una malattia:
presentandole
un’anima sana in un corpo sano”
(E. Mounier).
La teoria della guerra
giusta forse ha esaurito la sua funzione storica: non solo è risultata in
questi anni inutile (v. Iraq, Afghanistan
…) ma pericolosa in quanto di fatto propone una stretta analogia tra lo stato - imputato che semina la morte e gli stati - giudici che lo perseguono, a loro volta seminando morte. La disponibilità degli armamenti e di potenziale bellico ha inevitabilmente come
corrispettivo lo schema amico-nemico, il risveglio di istinti aggressivi e di reazioni
incontrollabili.
E’ possibile allora l’alternativa di detronizzare il potere armato siriano senza
fare uso delle armi?
Sinceramente non vedo
in questo momento possibilità di interventi non violenti che possano assicurare
soluzioni soddisfacenti ed esiti certi. Tuttavia né possiamo stare zitti né
possiamo imporre altra violenza. Forse può illuminare i decisori politici, e
noi tutti, l’esperienza
sofferta, tragica e mortale, di
migliaia e migliaia di persone, di poveri, di innocenti sottoposti alla furia omicida di chi non si fa
scrupolo nell’uso delle armi chimiche. La risposta forse può venire solo dal non
dimenticare il sangue delle vittime
della violenza o dei caduti tra le torture della prigione dei carnefici
di turno. Allora il cosiddetto pacifismo assume il volto di una resistenza che
coinvolge, impegna ed accomuna, in ogni paese, tutte le persone che credono
veramente nella pace. In altre parole deve esser chiaro che non tutti hanno il
diritto di rimproverare l’uso della violenza. Questo diritto spetta unicamente ai puri testimoni non violenti, ai veri
facitori di pace. Se infatti tutti
coloro che si predicano pacifisti, tutti,
senza eccezione, rifiutassero decisi e compatti ogni collaborazione nelle
fabbriche delle armi o di materiale strategico, nei quadri degli eserciti e delle polizie
oppressive del mondo, nell’eleggere in
parlamento i propri rappresentanti, nella ricerca scientifica a scopi militari,
nelle operazioni economiche a tutti i livelli in cui si
opprimono i molti per arricchire i pochi, nelle chiese di ogni fede e
religione, nelle scuole, in ogni luogo pubblico, sarebbe
ancora possibile una guerra?
Oggi gli strumenti di
distruzione sono talmente forti che qualsiasi pretesa di accomodamento diventa
illusoria insieme con la pretesa di regolamentare l’imponderabile e di
amministrare giuridicamente le modalità di distruzione dell’umanità.
Forse è
il momento propizio e urgente del
cambiamento. Per chi rifiuta eticamente la guerra ciò che deve cambiare è la
strategia concettuale: si deve disarmare la ragione armata. E’ difficile se non
impossibile prevedere quali e quante
siano le prospettive di successo di questa opposizione e ribellione morale. I metodi di resistenza politica contro
l’ingiustizia e la violenza, l’azione di disobbedienza civile contro
l’esercizio illegittimo del potere forse sono l’unica via per la soluzione del futuro non utopico. Non so quale altro modo vi possa essere oggi, ispirato
al benessere di tutti e al bando di ogni
violenza, “quella del pugno, della lingua e del cuore” (M. L. King).
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