“La menzogna, la
durezza di cuore, la vigliaccheria, l’egoismo fanno silenziosamente ogni giorno
sotto i nostri occhi vittime altrettanto numerose e più lentamente torturate di
quanto non sappia fare la guerra: chi ha bisogno che sia il cannone ad aprirgli
le orecchie non comprende più da lungo tempo questo tumulto dei tempi di pace”
(E. Mounier)
In questi giorni di
confuso disorientamento e di notizie
contraddittorie circa il possibile intervento armato americano in Siria, non ci
rimane che la parola contro il silenzio,
il dovere di non tacere contro la ridondanza frastornante, contro l’improvvisazione dei tanti presunti
maestri e nuovi sofisti, contro lo
smarrimento prodotto dai media e dai mercanti di notizie, contro la guerra come
puro spettacolo televisivo.
Ma la parola deve esprimersi
in un linguaggio chiaro e pulito, oltre
ogni confusione concettuale, oltre ogni
possibile equivoco. Prendiamo le parole-chiave pace e pacifismo: che cosa significano?
Che cosa vuol dire pace? Quella
eterna, dei cimiteri, della notte,
del cuore? Eppure in tutte le lingue c’è
un’esperienza comune, un denominatore comune molto vicino allo shalom ebraico: pace come integrità, santità, armonia,
stato di compiutezza e di perfezione. Non è un concetto negativo (assenza di
guerra e di bagni di sangue), ma positivo, riempito dalla presenza di qualcosa. Di cosa?
Smascheriamo allora il
falso pacifismo, quello “della domenica pomeriggio”, quello che non costa
niente perché non impegna niente,
proiezione della propria piccineria individualista e della propria indifferenza;
pacifismo di coloro che, ben assestati nella loro
mediocrità e prudente sicurezza, dicono
di odiare la guerra ma accettano impunemente
quotidiani antagonismi e conflittualità, nel tumulto delle proprie
rivendicazioni esclusive; coloro che ogni
giorno si voltano dall’altra parte per rimuovere dalla vista gli schiacciati,
gli emarginati, gli immigrati che
continuano ad approdare sulle spiagge di
un paese, il nostro, dove la stampa non fa che istillare odio, i media
rincitrulliscono e il tutto rischia di diventare
un male equivalente al male della guerra. La pietà generica contro la brutalità della
guerra è in realtà piuttosto compianto per la tranquillità minacciata e confessione della propria cronica
insensibilità.
Il pacifismo, vero ed
autentico, non è sinonimo di
tranquillità e di debolezza, ma di fortezza e di inquietudine; non è un ripiego,
ma ricerca di segni nuovi; richiede precise precondizioni e non si
nasconde l’aspra durezza delle cause
della guerra, dei meccanismi di potere,
delle regole di funzionamento delle istituzioni; è prevenzione della guerra, impegno politico, nella più vasta accezione del termine, ad anticipare la guerra, perché a conflitto
scoppiato non resta che piangere e seppellire i morti. È un pacifismo istituzionale, fondato sulla
tutela dei diritti dell’uomo e dei popoli, sulla democrazia internazionale. Non basta
invocare la pace come ideale astratto: occorre
lavorare perché si compia qui ed altrove nel mondo e bisogna fare in fretta, perché altrimenti gli innocenti muoiono e rimane solo il dolore.
Ci ricordava in questi giorni papa Francesco che la prima sfida per la pace
è l’indifferenza per l’altro: l’altro è
il banco di prova della pace. “La pace che noi dobbiamo volere è la pace che
porta con sé la giustizia nazionale ed internazionale e questa giustizia non la
troviamo bella e fatta: è tutta da fare. Chi custodisce nel suo privato la tranquillità
non è uomo di pace, perché non sceglie, vive nell’irresponsabilità nei
confronti del mondo che invece è affidato alla nostre mani. Non abbiamo il
diritto di essere pacifici: abbiamo il dovere di essere facitori di pace” (E.
Balducci).
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